da LE TAVOLETTE DI BOSSO DI APRONENIA AVITIA [II.] / Pascal Quignard

da LE TAVOLETTE DI BOSSO DI APRONENIA AVITIA

II. Le tavolette di bosso di Apronenia Avitia

I. Cose da fare a. d. VI kalendas

Vado al tempio di Numa. Cortine da lettiga.

II. Cose che sono rare

Fra le cose che sono rare aggiungerò un libro che è ben emendato. Un uomo che dimentica lo sguardo degli altri uomini. Una pinzetta per depilare che depili. Delle ante alle finestre che non lascino passare la luce del giorno.

III. Passeggiata sull’isola

Vidi passare sul Tevere delle barche piatte cariche d’avena, anfore, grano, frutta. La luce rasentava l’acqua. I colori erano bellissimi, in particolare i verdi e gli azzurri. Dei bambini nudi s’inzaccheravano sulle rive, nel silenzio. Eravamo troppo lontani per udirli e il vento veniva da sud. Poco distante, sulla sponda di una pozza d’acqua, fra i giunchi, con i glutei rosa posati sui talloni, un bambino di cinque anni, nero d’abbronzatura, pescava ranocchi. Con uno sguardo imperioso e portandosi la mano sul sesso ci fece segno di allontanarci.

IV. Cose da fare

Al tempio della Pace, alle spoglie di Tito. La phiala attribuita a Mys. Via Tiburtina. Vino originario del colle di Sezze.

V. Parto di Lycoris

Lycoris ha partorito un bambino che è morto di lì a poche ore. Assistetti Lycoris nel parto, accompagnata da Spatale e da Nigrina. Non mi piacciono le stanze da parto dove il bimbo è morto. Lycoris fece servire del vino di Siria. Il vino non ebbe effetto. Ho provato una tristezza che è durata sino al pranzo, in cui mangiai ostriche e porcini.

VI. Cosa di cui bisogna ricordarsi

Il tavolo rotondo di cedro da Glaucos.

VII. Differenti tipi di donne

Le donne che trovano tutto ammirevole, favoloso, inaudito sono insopportabili. Le donne che trovano tutto da poco, mediocre, stupido, di nessun valore, privo di gusto sono insopportabili.

VIII. Cose da fare

Al colosso di Domiziano a cavallo. L’ampio mantello agganciato sotto il collo. Il lotto di lecci. Peschi innestati su albicocchi. Un mulo al prezzo di un giovane schiavo.

IX. Q. Alcimius

Un tempo Quintus mi amava. Eravamo giovani. D. Avitius respirava ancora. Veniva furtivamente, passando dalla porta di servizio; avevamo la notte intera. Ai primi albori fingeva di alzarsi a malincuore, cercava la tunica, diceva che soffriva a lasciarmi. Non si affrettava ad allacciare i sandali. Veniva a baciarmi sul viso e giù, sul pube. Mi destavo. Gli dicevo, preoccupata: «Sta per far giorno. Sbrigati.» Sospirava. Quel sospiro mi sembrava fosse un’eco del fiume che attraversa l’Erebo. Allora si raddrizzava e rimaneva seduto sul letto. Annodava un laccio. Si chinava di nuovo e mi sussurrava all’orecchio il proposito di un desiderio, o forse inseguiva qualcosa che mi aveva raccontato durante la notte. Compiva una breve libagione all’aurora e con l’acqua si puliva la bocca, il sesso, si stropicciava gli occhi. Scivolavo dietro di lui. Restavamo un istante a guardarci davanti alla porta a due battenti. Mi diceva che non gli piaceva avere dinanzi tutta una giornata da trascorrere lontano da me. Mormorava che soffriva per questa separazione. Ripetevamo quattro o cinque volte l’appuntamento che avevamo combinato. Avevo la mano sul suo braccio. Toccavo le sue labbra con le mie. Varcava la porta e se la svignava di colpo. Nell’ombra ritornavo a letto. Mi sedevo. Ero riconoscente di aver vissuto la notte che avevo passato. Invidiavo me stessa, avevo i gomiti sulle cosce, mi sentivo umida, olezzante, arruffata. Ero felice, ma fra i rumori dei galli e dei secchi versai qualche lacrima. Amavo quella specie di fatica, quella spossatezza, quegli odori mescolati e quella sorta di sconforto repleto che non sempre si distingue dalla nausea e che è dovuto all’estremo appagamento.

(Da: “Les tablettes de buis d’Apronenia Avitia”, Paris, Gallimard, 1984. Presentiamo qui la traduzione delle pp. 39-43, che aprono la seconda parte dll’opera. Il presente testo è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista “Testo a Fronte” di Marcos y Marcos, n. 17/1997, pp. 41-51. La traduzione è di Giuseppe Macor. Immagine: alcuni frammenti di un affresco romano di Martizay.)