GR: Visto che questa sarà una conversazione sulla scrittura e sulla letteratura, vorrei dichiarare con forza che almeno ora, per questa occasione, Rem Koolhaas non è un architetto ma uno scrittore. La mia prima domanda, infatti, riguarda l’angoscia dell’influenza, termine coniato da Harold Bloom, un teorico della letteratura che in un suo saggio sostiene che per trovare la propria voce bisogna liberarsi dell’influenza dei padri. Vorrei chiedere a Rem Koolhaas da quali influenze si è liberato, se pensa di aver trovato una propria voce e, se sì, quando l’ha trovata. Per me la sua “voce” assomiglia a qualcosa di simile al film Weekend di Jean-Luc Godard riscritto da Roland Barthes.
RK: Questa è la prima volta che sono invitato a parlare in veste di scrittore, e ne sono molto felice. Credo che nel mio caso l’angoscia dell’influenza sia una questione particolarmente complessa perché mio padre era uno scrittore e lo sforzo maggiore per me è stato convincere me stesso che potevo entrare nel territorio già occupato da lui. Ho cominciato a scrivere di architettura e di architettura di interni in inglese, una lingua che non era la mia, e penso che questa sia stata forse la mia prima strategia per liberarmi, per entrare in un territorio differente in cui il confronto fosse più libero e anonimo. Come dimostrano le mie opere o la mia carriera, più che temere le influenze le ho accettate volentieri. Ritengo anzi che alcuni dei miei contributi più originali siano quelli che sono stati più soggetti a un’influenza esterna. Ho capovolto il modello, insomma.
Questo da un certo punto di vista si potrebbe definire un approccio postmoderno non solo alla scrittura, ma anche alla cultura. Una delle impressioni che ho avuto leggendo gli scritti di Rem Koolhaas, infatti, è che si tratti di uno dei più idiosincratici e interessanti tra gli scrittori postmoderni, e quando parlo di scrittori postmoderni intendo in modo molto onnicomprensivo autori come Donald Baltherme, Don DeLillo, William Gaddis, una scuola tipicamente americana che si è confrontata con temi come la cultura pop e la società dei consumi, o la TV, in modo piuttosto cerebrale, ma con esiti spesso impressionanti. Vorrei chiedere a Rem Koolhaas se si sente uno scrittore postmoderno.
Ritengo che siamo tutti scrittori postmoderni, senza eccezioni. Sebbene non mi piaccia molto la scrittura sperimentale degli autori che hai citato perché, a causa di una presa di posizione dichiaratamente avanguardistica, non riesce mai a confrontarsi con temi più politici e pragmatici. Aver scelto l’architettura, per me, è stato come un impegno nei confronti del mondo esterno, una sorta di rifiuto a restare confinato all’universo della sperimentazione. Il contributo più positivo dell’architettura è stato l’avermi permesso di sviluppare i campi più svariati nelle mie vesti di scrittore. Questo in definitiva è il mio unico vero interesse, riconoscermi o riuscire a immaginarmi in un altro mondo.
Una volta hanno chiesto a Harry Matthews, uno scrittore americano, chi è il suo lettore ideale, e lui ha risposto che il suo lettore ideale è uno che mentre sta leggendo il suo libro è così infastidito che lo butta dalla finestra e poi però va a riprenderlo scendendo a gran velocità giù dalle scale. Vorrei chiedere a Rem Koolhaas se pensa mai al cosiddetto lettore ideale, e se c’è un libro che gli ha provocato questa stessa sensazione d’irritazione e al contempo di bisogno di approfondire.
Chiunque parli di scrittori a mio parere dovrebbe parlare anche di lettori; e forse più che uno scrittore mi definirei un lettore, appartenente a un genere che forse non esiste più, ma qualunque cosa io dica o scriva non va letta in relazione a una sorta di topologia comune perché il nostro impegno non deve consistere nel trovare un libro in cui riconoscersi da vicino, o da lontano, ma nell’inserirsi in una determinata tradizione in modo selettivo; sotto questo punto di vista sono felice di esserci riuscito ed ecco perché se mi si chiede se sono uno scrittore postmoderno citando nomi come Barthelme e Gaddis rispondo di no, piuttosto sono uno scrittore postmoderno perché mi piacciono Von Kleist e Stendhal.
I primi passi di Rem Koolhaas verso la scrittura sono legati al giornalismo. Credo che scrivere sui giornali per una persona curiosa di tutto costituisca un piacere e una dannazione allo stesso tempo, perché se da un lato il giornalismo è il mestiere per eccellenza delle persone curiose, dall’altro i giornali tendono a rivolgersi a fasce di pubblico molto specifiche. E uno scrittore curioso di tutto ha bisogno di lettori curiosi di tutto.
Ti piaceva scrivere sui giornali?
Quando ho iniziato, negli anni sessanta, non c’erano regole vere e proprie, professionali, nel giornalismo; chiunque poteva farlo, soprattutto in Olanda, dove vivevo e facevo parte di una sorta di collettivo, più che un giornale, che però ha funzionato come un trampolino di lancio per un gran numero di scrittori, poeti e anche pittori della nostra generazione. Era una situazione piuttosto insolita perché il caporedattore era una donna, una persona di destra molto irascibile ma anche molto spiritosa, che credeva di essere un capitano d’industria, e però riusciva a garantire ai suoi autori la massima libertà. Potevo fare quello che volevo e visto che mi interessava il cinema avevo deciso di intervistare Fellini e altri registi italiani, ma anche alcuni architetti come Le Corbusier e Constant. L’unica cosa che il nostro caporedattore pretendeva era che gli articoli non fossero firmati, un’esperienza fondamentale per la mia scrittura, di cui ancora sento nostalgia. Infatti, successivamente, ricordo di aver scritto Delirious New York quasi come un ghostwriter con una sorta di voce anonima che apprezzavo moltissimo. Tuttavia dopo un po’ di tempo lei mi chiese di occuparmi anche del layout della rivista, quindi curare sia i contenuti che la parte estetica, e credo sia stata questa combinazione a suggerirmi l’idea di connettere fra di loro arte, scrittura e architettura.
Ho spesso avuto l’impressione, confortata da ciò che Rem dice a proposito del ghostwriter, che nella sua scrittura manchi uno dei grandi luoghi comuni nelle scuole di scrittura, oltre che un elemento ricorrente in molte teorie narratologiche: il punto di vista. E questo ovviamente non è una critica quanto piuttosto il riconoscimento di una peculiarità, come se la voce narrante Koolhaas, anziché scrivere, venisse scritta. Ecco perché mi viene da chiedergli: quando un architetto concepisce uno spazio o un paesaggio, pensa al problema del “punto di vista”?
Uno degli aspetti più piacevoli del mio lavoro è la possibilità di operare in due discipline diverse. Chi scrive può scegliere fra una vasta gamma di generi letterari, a differenza di quanto avviene in architettura dove non c’è la stessa ricchezza di repertorio, o per meglio dire c’è, ma non ci si rende conto di averla. Il mio coinvolgimento con la letteratura è dovuto al fatto che posso assumere identità diverse, e chiunque abbia un background letterario sarà in grado di comprendere che se scrivo Junkspace volutamente non sono la stessa persona che scrive per esempio di Singapore. In architettura invece la reazione potrebbe tipicamente essere: è cambiato, non lo riconosco più. Credo però che per trasmettere un messaggio con il maggior impatto possibile, la possibilità di scegliere voci differenti sia una libertà preziosa
Ho la sensazione che in alcuni dei suoi scritti Rem Kolhaas sia il ghostwriter di una moltitudine, e che questa moltitudine coincida con la una sorta di sistema di interconnessioni nervose dell’identità contemporanea, di una contemporaneità allargata, che sfuma già nella Storia.
È una faccenda complicata, e naturalmente ha a che fare con la scrittura e con l’architettura. Prima di cominciare a lavorare su New York mi sono reso conto che in architettura esiste sì l’anonimità, ma l’architettura a cui siamo interessati come collettività non è un’architettura anonima, e quindi è legata in un certo senso all’avanguardia. Negli anni settanta, quando cominciai a farmi un’idea di cosa fosse l’architettura, ancora prima di cominciare a studiarla davvero, capii che ciò che realmente contava, in architettura, era la storia delle avanguardie in Germania, in Russia, in misura inferiore in Olanda, in Francia, persino in Cina: ma il paese dove esse parevano del tutto inesistenti era l’America. Mi sembrava inoltre evidente che i momenti cruciali dell’architettura moderna si fossero tradotti sia in edifici che in manifesti scritti praticamente dal nulla da menti geniali. Così ho provato a mettere a punto una specie di modello contenutistico perché era impossibile che un settore di tale importanza per il mondo fosse dominato da un’avanguardia, e quindi, con piglio polemico, decisi di prendere come campo d’applicazione New York, basandomi sulle osservazioni di tutti gli scrittori e sui manifesti inneggianti a un’architettura che avevano descritto ma non costruito. E la conclusione è stata: in America ci si concentra sulla realtà, ma in assenza di manifesti. L’idea del libro era una specie di formula letteraria in cui fornivo le prove in retrospettiva di un movimento artistico che a mio parere non è meno importante di quello delle avanguardie. Nel corso di un intenso lavoro scoprii che c’erano state, per esempio, relazioni segrete fra le avanguardie sovietiche e americane. In un certo senso quindi l’idea che il mio non fosse un manifesto era un costrutto letterario. Ripeto, non era inteso come scritto sull’architettura, ma piuttosto come una sorta di formula letteraria che permettesse manipolazioni.
In Delirious New York c’è una citazione per me bellissima di Gertrude Stein, secondo cui “gli americani sono i materialisti dell’astratto”. Credo che si possa fare una storia della letteratura a partire da come certi autori hanno preso spunto dalle citazioni per costruire interi edifici immaginari. Mi piacerebbe conoscere la storia che si nasconde dietro quella citazione perché mi ha colpito molto.
Sì, la citazione della Stein è da qualche parte a metà del libro. Credo che all’inizio ci siano invece due citazioni di Dostojevski e Vico, ma per il libro nella sua interezza Vico era più importante; della sua opera mi aveva ispirato l’idea di cercare le prove delle cose nella propria mente piuttosto che nel mondo esterno.
Penso che la genialità autentica della civiltà americana sia stata quella di mettere al mondo oggetti fisici, o di rendere fisiche le cose, e la prima volta che venni a New York mi resi conto per esempio che la mera corporeità di un complesso come il Rockefeller Centre non sarebbe potuta esistere in nessun altro luogo, perché in apparenza solo in America si trovava quel tipo di capacità logistiche in grado di organizzare enormi lunghezze in modo così intelligente, in contrasto con la tradizione europea molto più effimera e irrealistica, dove si dà più importanza alle idee; così facendo volevo creare una sorta di sintesi fra le idee e il mondo fisico, concreto, o perlomeno descriverne le possibilità teoriche.
Delirious New York ha un ritmo particolare, mi fa venire in mente Manhattan transfer di John Dos Passos, forse anche per il soggetto trattato. Dato che da Delirious New York a Junkspace sono passati trent’anni, volevo chiederti se pensi che la tua scrittura sia cambiata in qualche modo.
Credo che ci siano degli aspetti davvero preoccupanti nella concezione attuale dell’architettura, dei cosiddetti leader e delle persone nella mia posizione: l’umorismo per esempio è un’ aspetto quasi del tutto assente, e così il piacere. Per me quindi il lavoro di scrittura è orientato verso ciò che mi dà maggior piacere, ma anche verso ciò che può offrire occasioni di polemiche. Scrivere, in ogni caso, resta per me uno dei pochi territori davvero privati, dedicati al mio piacere e alla vera espressione di me stesso.
Rem Koolhaas ha mai tenuto un diario?
Sì, ho scritto dei diari ma per me non sono un genere letterario.
Uno dei generi più lontani dal diario è la sceneggiatura cinematografica, e so che negli anni Settanta R.K. si è cimentato con questo tipo di scrittura. Può raccontarci com’è andata?
Ho cominciato a studiare a 26 anni, frequentavo una scuola molto costosa e dovevo guadagnarmi da vivere. Avevo un amico che faceva il regista, così iniziammo a scrivere sceneggiature. Il nostro primo lavoro, che sta uscendo in DVD, si chiamava White slave ed è stato influenzato da Werner Fassbinder, i cui film sono molto interessanti perché trattano di temi quali la colpa, il piacere, il dramma, la storia, senza che lo spettatore ne percepisca l’estrema serietà. Anche il nostro era un melodramma sull’ idealismo il cui protagonista principale era un tedesco buono. Quando lo facemmo, nel 1972, l’Olanda era molto reazionaria per quanto riguardava il perdono ai tedeschi e il film fu fonte di controversie così aspre che il regista dovette abbandonare il paese – io me n’ ero già andato – e diventammo entrambi persona non grata. Il secondo film che scrivemmo, e che non fu mai realizzato, era per un regista americano, Russ Meyer, anch’egli autore di melodrammi e di film considerati allora pornografici. Fu scritto nel 1974 all’epoca della scoperta degli enormi giacimenti di petrolio in Medio Oriente e per me continua ad avere una struttura molto interessante, si componeva di tre storie diverse.
Ho chiesto a Lawrence Weschler, uno scrittore americano che ha lavorato a lungo per il New Yorker ed è qui con noi a Cagliari, di fare una domanda a Rem Kolhaas…
LW: Thomas Mann una volta disse che gli scrittori hanno maggiore difficoltà a scrivere rispetto agli altri. Anche lei la pensa così? Tende a temporeggiare molto quando scrive, e cosa fa quando temporeggia?
La vita di un architetto è assolutamente totalizzante, e quindi per poter scrivere devo crearmi delle parentesi di libertà. Per questo quando temporeggio in realtà lavoro, il che è un peccato perché sono ben conscio che il modo migliore per pensare e quindi per scrivere è perdere tempo. Tutta la mia vita è una disperata ricerca del momento in cui posso riposarmi.
GR: Ogni volta che penso a Rem Kolhaas sia come personaggio pubblico sia basandomi su ciò che emerge dai suoi scritti, mi viene in mente la parola cinismo; vorrei sapere se R.K. ha qualcosa da dire sul cinismo nella sua scrittura e in generale.
Forse sarebbe più semplice dire che non capisco il significato della parola.
Un editore spagnolo, Galliano, ha scritto due articoli in cui discute del mio cinismo e di quello di Michel Houellebecq, cercando di crearne una sintesi, come se rappresentassimo il vero nocciolo duro del cinismo mondiale. Ho letto il libro di Michel Houellebecq e invece vi ho trovato un amore quasi sentimentale per il genere umano, un’attenzione per la quotidianità in tutte le sue forme. Il cinismo è un po’ un’illusione. È incredibile come ad esempio il mio legame con Lagos sia stato sistematicamente posto in relazione al cinismo, quando il mio unico interesse era documentare come questa città, così moderna negli anni Settanta, stesse riemergendo dopo vent’anni di declino. C’è un’immagine secondo me unica, una foto che ho scattato io: raffigura due giovani musicisti nigeriani che hanno occupato abusivamente una parte di un edificio moderno per trasformarlo in uno studio di registrazione, e un’altra foto che documenta l’apertura del primo ristorante cinese dopo un periodo di crisi. Ho intenzione di scrivere un libro su questo e mi sorprendo nel vedere come la comprensione e l’interpretazione di un processo, dai risultati in fondo positivi, possano essere considerate una forma profonda di cinismo. Mi sorprende e allo stesso tempo lo trovo interessante perché entra a far parte di una reputazione contro la quale io stesso sto lottando.
[Questa intervista è stata pubblicata su Abitare e su minima & moralia.]