Si assiste alla sevizia, si placa il malanimo dell’uomo tardi svegliato, si formulano idee generali sulla barbarie degli stupratori, si sfoga certa bile oscura, si guarda il corpicino martoriato del bimbo. Allora ci si rammenta la storia segreta della nostra infanzia, si sfila dalla tenebra la trama voluttuosa dell’incesto, si sogna la cavalla cavalcata da Edipo, si compie il passo decisivo verso il lavoro. Si confida che il vicino astioso muoia presto, ci si lagna dell’indigenza sessuale della moglie, si sogna la copula selvaggia in groppa alla bestia primigenia, si ripensa al fatto oscuro, si squadrano omicidi, si occhieggiano pose hard-core, si fissano muscoli e mitra, si contemplano pestaggi all’ultimo sangue, si vagheggiano tregue durature dell’umanità, si sbirciano popolati lupanari, si brama la casta e mite contemplazione, si guatano falli portentosi, si mirano corpi squartati dal torturatore, si scrutano calamità tremende, si avvistano donne e bambini che hanno patito violenza carnale, si scorge lo scempio dei neri, si intravede il massacro dei giudei. Quindi ci si rammenta del fratello odiato, si sfila dalla custodia la lama tagliente del coltello e si prepara la merenda per il bambino.
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Ci sei tu, che bussi alla porta e, dall’altra parte dello spioncino, l’uomo che rideva nella sua testa di scheletro. Ci sei tu e, dall’altra parte, un uomo sparuto che aveva abbracciato la sua vecchiaia, poco prima di morire.
«Non voglio niente, signore. Ti prego.» Lo spioncino si richiude riposizionando te e il vecchio: è solo questione di tempo; il vecchio sa che dovrà ancora guardare dallo spioncino, vedere il tuo volto che si deforma nel piccolo cannocchiale di vetro, fissare il tuo occhio che si avvicina e si allontana, dondolando.
Poi il vecchio parla al giovane con la voce del giovane. «Nessuno conosce il giorno o l’ora.»
Il giovane sanguina dagli occhi e più il vecchio parla più il giovane si deprime.
Il vecchio, per prendere tempo, si accende un sigaro, inala e soffia una serie di fantastici anelli di fumo che escono fluttuando dal buco della serratura.
«Sei venuto per guardarmi morire.»
Il giovane, avvolto in sette cerchi di fumo, a quelle parole vacilla, indietreggia di un passo, estrae il suo tamburello e incomincia a percuoterlo.
Dopo poche percussioni il piccolo cannocchiale di vetro esplode, delle fenditure trasversali attraversano gli occhi rotondi e vitrei del vecchio che si porta le mani alle orecchie per proteggersi da quel suono infernale.
«Dio asciugherà ogni mia lacrima dai miei occhi e non vi sarà più morte.»
Ma le parole del vecchio saltarono con una detonazione, mentre il giovane percuoteva il suo tamburo, soddisfatto della sua musica.
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«Dacci un’altra risposta. Questa non è convincente.» «Era l’unica che potevo darvi. Dovrei inventarne un’altra», rispose il mendicante. «Fallo per noi», soggiunsero i suoi aguzzini: gli parlavano con dolcezza e lui si lasciava torturare. «Se ti impegni, con pazienza, riuscirai a dirci quello che vogliamo.» «Non so da dove incominciare», rispose il mendicante, scrollando la testa.
Uno dei quattro gli mise allora le mani intorno al collo e strinse con forza. «Conosco certe tecniche. Devi dire quello che sai, e lo devi dire con poche parole. Non usare aggettivi, neanche verbi. Solo la verità.» Per tutta risposta il mendicante mostrò la lingua, di un bellissimo colore azzurro.
«Impertinente!» gridò il suo aguzzino. «Irresponsabile!» gli fece eco un poliziotto che si era fermato per qualche istante per assistere alla scena.
Stimolati da un nuovo sentimento di giustizia, i quattro passarono alle fruste chiodate, mentre il poliziotto li salutava da lontano, agitando lo sfollagente. Al primo schiocco il mendicante lanciò un solo grido e svenne. Un cane, giunto chissà da dove, saltellò intorno al gruppo guaendo festoso, poi avvicinò il muso alla bocca del mendicante e prese a leccargliela, uggiolando. Si voltò verso i quattro e li guardò interrogativamente. «Brava bestia, ora fatti da parte.» Frattanto il mendicante si era rianimato, fece per dire qualcosa ma un pugno sotto lo sterno lo fece piegare su se stesso.
Giaceva ora per terra, con la schiena contro il muro e le gambe allungate.
«Dicci quello che hai visto.»
«Non ho visto nulla.»
«Sforzati allora di vedere qualcosa.»
«Ho tanto sonno.»
Una frustata gli attraversò in diagonale il volto, poi i quattro indossarono i pugni di ferro. Il cane riprese a fare giravolte e ad abbaiare festoso, credendo che gli uomini volessero divertirlo. Quando il mendicante gridava, rizzava le orecchie e agitava la coda. Continuarono a percuoterlo, poi il più giovane del gruppo, tirandolo per i capelli, gli alzò la testa e lo costrinse a guardarlo negli occhi. Ma il viso del mendicante era coperto da uno strato di sangue giallo, un liquido vischioso gli ostruiva le orbite e sgocciolava sulla barba. Sotto il mento si era aperta una ferita, grande come una mela, da cui apparivano le testoline formicolanti di piccole bestiole bianche, con gli occhi splendenti verso la luce.
Fiutando la morte, il cane si distese con il muso sulle zampe anteriori, gli occhi languidi e le orecchie abbassate: gli aguzzini erano morti, annegati nel sangue della loro vittima. Il mendicante, allora, si alzò con la maestà di un vecchio cammello, scrollò le spalle e se ne andò, leggero come i trapezisti nelle volte dei circhi.
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Guardano gli autobus incrociarsi fragorosi nel grande crocevia cittadino. Sulle fiancate campeggiano i vistosi cartelloni pubblicitari, mentre qualche annuncio mortuario occhieggia ai lati delle strade, sovrastato da altre affissioni multicolori, spiagge e palmizi assolati e le varie promesse di ricchezza e benessere in cui fantasticamente si perde lo sguardo dei passanti.
Aspettano il loro pullman, ordinatamente disposti sotto le pensiline. Li conosco bene: sono i miei primi conoscenti di questa città e stanno morendo nell’attesa. Alcuni muoiono con dignità, portandosi dietro la famiglia, altri con rassegnata solitudine, mandando un grido gentile prima di spirare.
Non si siedono mai perché hanno paura di essere colti di sorpresa, stanno perciò uno dietro l’altro guardando con occhiate apprensive il traffico cittadino. I più giovani invecchiano nello spazio di un mattino e nello spazio di una notte muoiono; in realtà se ne vanno con un misero trucco, presentandosi a noi in tutta la loro patetica estensione. Sanno che il loro pullman ha cessato per sempre di passare ma l’attesa, per loro, occupa un periodo ragionevole di tempo.
Alcuni di loro si godono così il tepore del sole autunnale che batte sul plexiglas della stazione di attesa, mentre un leggero vento porta lontano le loro inutili chiacchiere, i gemiti dei più vecchi, le trepidazioni delle donne incinta, li disperde nel trambusto del traffico o, più lontano, tra le foglie dei pioppi, ai margini della città.
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Nessuno sa da dove siano venuti. Sono comparsi all’improvviso e la città ha incominciato a interessarsi al loro destino. Dapprima pochi curiosi che guardavano gli ospiti (così li avevano chiamati) e gettavano loro del cibo, poi si erano formate delle code, veri e propri assembramenti.
Gli uomini avevano smesso di lavorare, ogni attività era stata cessata, chiusi i negozi, le industrie, bloccate le vie di comunicazione; gli animali, nelle gabbie degli zoo, spingevano i musi fra le sbarre e mordevano l’aria alla ricerca di cibo che nessuno più gettava loro.
Gli ospiti parlavano una lingua diversa dalla nostra, rifiutavano le nostre parole e tra di loro si intendevano a segni, facendo versi come le cicogne. A tratti, quando il cielo incombeva come uno scudo sulle nostre teste, spalancavano le bocche in attesa della pioggia; la notte, invece, quando la luna appariva audace nel cielo spoglio, emettevano lunghi latrati.
«Ci vogliono spaventare», disse qualcuno, ma non era vero: gli ospiti volevano soltanto segnare la propria presenza e, per quanto ci fossimo sforzati di parlare con loro, non ci avrebbero mai compreso.
Il terzo giorno era intervenuto il governo e aveva transennato lo spazio dove gli ospiti si erano accampati, mentre tutto intorno ardevano cassonetti e lunghi pennacchi di fumo nero si alzavano dalle macchine incendiate: nessuno avrebbe più osato avvicinarsi agli ospiti, le cui forme sembravano scomporsi sotto il faro di un elicottero che andava e veniva, come ombre al bagliore di una candela.
Una mattina abbiamo visto sul viso infantile della femmina disegnarsi le prime rughe. Fu allora che accadde l’irreparabile: i più intransigenti di noi incominciarono a scrollare le enormi inferriate che erano state alzate intorno agli ospiti, chiedendo una casa per loro, ma i poliziotti risposero battendo i manganelli sugli scudi. Poi i militari alzarono i fucili contro gli ospiti: il maschio incrociò le zampe anteriori e si rannicchiò su se stesso, mentre la femmina, che aveva ingoiato un proiettile come un sonnifero, arrotolò gentilmente la sua coda.
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L’assassino, che si chiama Ernesto, ha freddo. Si stringe nel suo cappotto nero. Improvvisamente avverte un rumore che proviene da una stradina alla sua destra. È un rumore inconfondibile. Qualcuno ha infilato il caricatore in una pistola. L’assassino si appiattisce in silenzio contro il muro. Sono attimi interminabili: la sinagoga non ha ancora spiccato il volo, è sempre immobile dall’altra parte della strada. I sensi di Ernesto sono protesi nel tentativo di avvertire il respiro del suo avversario, poi il silenzio è rotto da un secondo rumore, questa volta proveniente dalla sua sinistra. È un rumore inconfondibile. Qualcuno ha armato una balestra con la freccia d’ordinanza. Ernesto tenta una sortita: attraversa la strada mentre la sinagoga sta aprendo le ali per il decollo. Ernesto sta scappando, ma non segue una direzione precisa. Attorno a lui sibilano le frecce incendiarie e i dardi delle cerbottane. È in un vicolo cieco, di fronte a lui un muro. In un lampo, Ernesto decide di arrampicarsi sul muro, per proseguire la fuga dall’altra parte. Sopra di lui volteggia la sinagoga, da sotto proviene un rumore inconfondibile. Qualcuno sta armando la catapulta per abbattere il muro del vicolo. Ormai è una corsa folle, una lotta contro il tempo. Questa è la sua città, eppure Ernesto sembra non riconoscere le strade, i palazzi. A un tratto si infila in un portone. Forse crede che i suoi nemici proseguano oltre, invece eccoli, li sente affannarsi sulle scale. Ernesto si inerpica verso l’alto. Qualche piano più sotto il rumore inconfondibile di un reattore nucleare. Quasi senza accorgersi, Ernesto si ritrova nella sinagoga. I muri dell’edificio sono freddi, gelati, all’estremità della navata principale c’è la sua bara che lo aspetta mentre, fuori, la città sta aprendo le ali per prendere il volo.