
Astrazione
Lo faccio subito, è l’evidenza il punto, non lo faccio.
Mentre lo faccio, monossido di carbonio è l’evidenza, punto.
So che non devo farlo, essendo il punto l’evidenza non più al bianco, questo, né il punto è sul bianco
lo si può fare dunque: no. Non lo si può che pensare. E pensandolo, pure messo tra l’evidenza e l’intenzione,
il punto è una traccia d’aratro che lavora un cielo. Il cielo lavorato, le nuvole arate, essendo senza punto seppur evidenti allora si continua, in questa coazione a ripetere, che è affare dei cieli, non mio. Non si continua allora.
Si continua dunque, dal basso, da un basso monocromatico: si scelga la gradazione, quella della traccia. Se gli arti soffrono il freddo, si cerchi un riparo dall’evidenza.
Lo faccio lo farò, è evidente come un punto è il punto, non lo farò. Lo sto facendo.
Si stabilisca la natura di questo struggimento -quale?- si comprenda come questa fitta muscolare sia affar nostro, mio e del punto che sa di approssimarsi
per necessità, essendo il tempo un cielo arato, senza nuvole. La coazione non è finita e specie nei mesi invernali, si lavora lassù, assai, a gran forza masse e masse di bianco vengono spostate da un cardine all’altro senza punto al bianco dell’evidenza che.
Dovreste voi -i punti tutti- portarmi offerte, se volete che io vi salvi dall’evidenza dell’intenzione, se volete.
Per incalzare il cammino del bolo che durante la notte ha riposato nelle pieghe dell’intestino, compiendo
l’intenzione l’evidenza
punto.
Lo faccio adesso, tra una decina di minuti, ora, non lo sto facendo. Lo si faccia e
mentre lo faccio, lavorano di fuori, battono con il martello un ferro, costruiscono dei punti alla mia evidenza.
Nell’ora del martirio del pezzo a ferro e fuoco, perfettibile, come lo strascico di un sogno non trattenuto, questo
né il punto è sul bianco, lo si può considerare un cielo notturno lavorato, arato fino all’evidenza di una dissolvenza, al passo-uno dell’ingegno.
Si continua dunque, si cerchi un rifugio da questa santità miracolosa del bolo che fuoriesce dagli occhi, gli si domandi se per tutto il giorno dovrò muovermi con questa materia che cola dalle orbite, rigandomi il volto
–
Inezie
Essendo la centrifuga in funzione, l’evidenza il suono, il punto né sacrificato né del tutto punto e non ancora, si può continuare. E si continua. Avendo letto abbastanza né molto né poco e non ancora, dovendo leggere dunque
il punto non è che una traccia pallida non bella, non ancora brutta
sana, malsana, minuscola, remotissima, stilata in evidenza, contigua alla centrifuga in funzione e funzione
si continui, di grazia, potendo certificare una garanzia: l’allestimento prossimo allo zenit.
Dopo, più tardi, lo struggimento, sarà una di quelle amenità funzionali allo scarto, un cordiale diaframma
perché punto e inezia coincideranno con la fine del programma di lavaggio. E coincidono infatti. Una qualità della corrente elettrica o risparmio energetico, l’evidenza reclama la mia attenzione -si sfascia un nervo soltanto- funzionale all’evidenza il suono né del tutto estinto e non ancora, si può nel rantolo continuare.
Continua. Avendo letto abbastanza né molto né poco e non ancora, non potendo leggere ulteriormente
il punto è una traccia non bella, bella
sgradevole in percentuale remota
minutissima garanzia, amena. Pure l’ora digitale implica la vestizione digitale, ferma
non punto, messa a punto nella vestizione, impalata l’evidenza il punto langue digitale. Esplode forse? Non implode,
resiste, non se ne parla e non se ne può parlare anzi, piccolissimo è questo canino che non duole
certificando la garanzia della luce allo zenit, lo straniamento – il bip alla fine del lavaggio – la macchina
il budello ultrasensibile, contorsione della vestizione. Il nylon sovversivo
–
L’uno
Il tre era al gioco dei dadi, il supervisore dello stallo. Lo è, potendo continuare, nelle mani, continua.
Tra il due e l’uno c’è, c’era anche una forma dell’attesa, lo stare a fianco (le mani essendo le protesi del punto, non stanno del tutto all’intenzione) le zanne.
Zanne. Era l’uno al di fuori e nella vita, una vita, (quanto tempo occorre alla bocca per compiersi adesso nelle forme del tre, del due e dell’uno) ché anche lo zero pretende la sua parte, dopo che l’intenzione ha piegato il lembi dei fili fino al cavo, li ha nella catodica del metodo recisi al sonno. Si torni dunque al letto, se lo zero e l’uno dissentono dall’intenzione. Ma si deve, in questa ventura della conta, stabilendo le mani l’esercizio della costruzione, regola d’arte sta all’esecuzione, così come il nanosecondo non sta al tempo, ma allo spazio
lo spazio è, era, il tre, quella limpida potenza del collaudo incisa alle falangi, e lo si può, dopo che il due ha disertato il letto, con l’intenzione di sovvertire la volontà, non già l’intenzione. Al tavolo ci sono tutti: il punto, l’intenzione, le mani
le numerazioni cardinali
l’esponente, l’orbita celeste al cranio, l’intenzione, l’uno ed anche l’astrazione (sono le braccia adesso pezzi della presenza mutilata) la bellezza.
La bellezza è questa permanenza ignota, la fissità ultraveloce nella ripetizione, finire pur non avendo mai iniziato,
la vacuità, le strade a scorrimento veloce, le rotatorie, i semafori, lo sbagliare direzione, fallire il percorso e questi segni di una sistemica delle vene, le periferie di un corpo esterrefatto ed è il due il supervisore delle emittenti radio, potendo accontentarsi di assolvere siffatto compito; al tre restano le perpendicolari al cielo, i punti, i punti all’uno dell’indifferenza stanno.
Mentre quest’ora incalza le prese fortunose -una matericità che scola nei tubi di scarico della navicella- anche un sapore dell’amaritudine nella posa dei numeri è, in questi oggetti di un mondo senza fine.
[Immagine: Zaha Hadid, Crater.]
[…] silvia tripodi. tre prose. 2013 [25-04-2013 […]
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