da "i miei pezzi" / andrea inglese. 2013

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Dopo la nascita è importante migliorare, questo me l’hanno detto senza equivoci. È importante migliorare, con le proprie forze, per la valutazione continua. L’ascoltare, ad esempio, deve essere correttamente migliorato alla perfezione. Apprezzare il momento sonoro, quando si cammina o si incespica, e organizzare suoni e silenzi, affinché ritorni il tema principale dopo ogni digressione (ad ogni ripetizione il tonfo [il colpo] varia, sicché nonostante le numerose ripetizioni l’interesse del pezzo è accresciuto). È importante organizzare l’ascolto della propria camminata, apprezzare il rondò della camminata, fare molti pezzi di una camminata. È importante migliorare il momento del suono. Il suono che sale quando si cammina, la camminata sonora. È dentro quel suono che bisogna adattare l’ascolto, raffinarlo, guidarlo al compimento: si può farne qualcosa: 1) scalpiccio, 2) battito, 3) tacchettare. Se non c’è ancora un buon camminare, perché si va carponi, in modo inefficace, se più che altro uno si trascina, o rimane ostacolato dalle proprie gambe, il momento sonoro lo si fa da fermi, pestando per terra, o poggiando un piede e poi l’altro, con grande pazienza. Ogni moto a luogo un perfezionamento, nel senso sia musicale che atletico, d’avventura.

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Quelli che hanno inventato il calcestruzzo, possono dirsi fortunati. Questo me l’hanno detto senza equivoci. Alcuni altri hanno inventato il comando “Aggiungi 1”. Quelli seduti intorno allo schermo murale hanno inventato la capanna interamente grafica. “Dobbiamo inventare il piano di civiltà”, è l’insegna di tutti i quartieri. Lo sa anche la donna che avanza con un piede scalzo, i seni ballano nella maglia troppo larga, cerca di fare qualcosa di quanto ha lungo le cosce, le strisciate di crema o sugo, deve senza smettere di camminare, ci prova con la carta raccolta da terra, con la punta delle dita insalivate, è un ottimo esempio, ancora qualche metro e verrà fotografata, sta immaginando come cadere sul fianco, bene per le piccole cineprese d’angolo. Io non mi alzo, che sono tutto dedito al respiro. Che godo il momento visivo. Che miglioro il modo che ha il mondo di venire su di me, e anche il fortissimo del rombo del treno: se giunga dallo steccato, e vada a consolidarsi in una zona chiara dell’ascolto, in mezzo ad altro fracasso, per essere dichiarato autentico. Così come lo sento, è una piccola porzione, un primo pezzo. Lo tengo a mente per meglio inventarlo. (Sarà lavorato l’intera notte, tradito nei minimi costituenti, perché renda davvero tutto, e sia reso appieno, estraneo piccolo blocco: da mercato e consegna, finalmente valorizzato.

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Regola della fruttificazione dell’infanzia, dei miti compagni di gioco la sera, la manutenzione e il restauro del gioco, degli occhi tondi dei compagni, oggi materiali rari. Ricordarsi il mutismo dei pupazzi, la lanugine appiccicata sui cuscinetti del cranio, le carte degli animali: il tacchino e il montone, l’ippopotamo sul trattore, il coccodrillo nell’autorimessa. Consolidare i riflessi delle lampade da tavolo sulle figure. È un pezzo di notevole interesse: tutto rimettendo al presente, riconsiderandolo con l’attenzione odierna, le mani posate sul cursore, la luce ibrida, la patina pulsante dello schermo. Fruttificare, fare anche questo pezzo. Poterlo consegnare elaborato. I valori calcolati. Il titolo: La frescura dell’autunno. Tutto dipende dal far muovere bene, in cerchio, con gli occhi tondi, appena assonnati, tutto dipende dal giro, che sia regolare, senza eccessivo disturbo mentale, solo i piccoli disturbi di fondo, dell’epoca, autunnali, infantili.

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Non basta prendere a pigione: quello che viene respirato, quello che è stato detto, anche nel notturno, scavalcando il macigno messo di traverso, quello che è stato visto, ogni volta sporgendosi, le erbette, le code di lucertola, i tralci della vigna, le scatole fradice, di cartone, tutte spappolate a terra, e quegli uomini che entrano, quasi sempre in fila quando entrano, che agitano gli ombrelli, fanno fatica ad abbassarli, e poi di nuovo li alzano, o sono vanghe, per retoriche minacce, o rituali invernali, tra pioggia e vento, con gli stivali di gomma, quando uno ne compare provvisto, e le cose che sono state lette, su come la terra sia un pianeta, e su come noi tutti siamo, su questo stesso pianeta tondo, in uno strano abbandono, e come esso stia sollevato nello spazio, e anche sappia rotolare su di sé, non che tutto ciò sia chiaro, nulla è veramente chiaro di quanto è stato letto, ascoltato, visto, anche senza la fatica di sporgersi, oltre il macigno, ma qualcosa ogni volta di nuovo va registrato e ricollocato: un pezzo sereno, con musica, ognuno dica quello che sente nel cuore, ognuno con la frase, una musica breve, e sia ben numerato, per la custodia. Un pezzo nuovo, gradito a qualcuno. Verranno a chiederlo, magari dall’altro capo del mondo. Porgere avambracci, cristallizzare sul vetrino la saliva, ungere la gola, tenere sotto la luce il sesso, la nuca, essere prontamente adatto, cedevole, visibile in lontananza.

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da EX.IT – Materiali fuori contesto, a cura di Marco Giovenale, Mariangela Guatteri,
Giulio Marzaioli, Michele Zaffarano, La Colornese – Tielleci, 2013

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