il dono delle lingue / pierre alferi. 2009

 

La Nostra Scienza ispirando Flore [1], le nostre essenze penetrando il suo animo, avvenne anche in lei una mutazione, l’ultima, che fu la sua gloria. Che fosse ormonale? Il nero si concentrò nei suoi capelli al posto del bianco previsto, e nei suoi occhi al posto del blu, un’ombra lanuginosa ornò il suo labbro, oscuramento che rendeva Flore più rassicurante, strega benamata. La sua cassa toracica, soprattutto, s’aprì come un fiore sotto la pressione di un’ispirazione, sì il suo busto era ora più ampio, presentava un petto asessuato, l’unica mammella dai contorni sfumati sotto pullover in cachemire. Tonda dolce [2] giovenca genitrice in mezzo-lutto al chiaro di luna, compagna di sonno nel fieno di un fienile, canticchiava: Rest
rest
rest on my breast. La sua voce – intaccata dal tabacco? – divenuta baritonale, il suo odore – alterato dal fumo? – s’era speziato di paprica a tal punto che ricordava un paese dell’est non lontano dalla Boemia di Rose.[3] Aroma terapeutico. In breve era un’altra, l’ombra del Suo Sapere. Questo esotismo ci sembrò una qualità più reale, accento che ci era dapprima sfuggito, e una volta riconosciuto ci rompeva i timpani.
Rose ci aveva giocato il tiro del ceco, nostra lingua madre non materna
poi con Jim il tiro della lingua privata – di cui vi si priva per messe basse
Tom, quello del pidgin,[4] falsa grammatica che quasi ingannava
e Théo quello della scrittura pianistica – volapük[5]:
adesso mi persuadevo senza sforzo che Flore aveva idem lingua segreta e origini, qualcosa di non cattolico e non indoeuropeo. Finnico? ungherese? basco? mongolo? In questo idioma, che era il suo thesaurus, si compendiava la sua smisurata cognizione. Vi si sarebbe depositata a un grado di densità crescente e a misura dell’opacità dell’idioma, corpo che ne fissa un altro, di un liquido fa un sale. Niente mi provava, certo, che c’era nella sua memoria, per quanto prodigiosa fosse, una tale lingua madre, niente indicava che vi sarebbe presente. Ma capitò che Flore a quell’epoca mise alla prova il suo dono delle lingue.
Un ascoltatore distratto avrebbe detto che i suoi erano calembour cosmopoliti. Cominciò timidamente con traduzioni dal francese al francese nel genere Almanacco Vermot[6] (Ah, la manna a vers-mots! ribatteva). Al pescivendolo, che gli insegnava a pescare le trote coltivate con la rete, ribatté: Volete dire che infilate sono détruites[7]? Talvolta, in effetti, un messaggio erotico affiorava, come nella contrepèterie[8], ma in modo sapiente non salace e clinico, non pagliaccesco. Presto prende coraggio e varca le frontiere. La mania diventò vizio ed ebbe il dono di scandalizzare Il Pastore partigiano di un’ermeneutica nei limiti della semplice ragione, Tom disse tornando da scuola: Siccome non c’erano più baguette, ho comprato del pan carré.[9] Flore tradusse: Come il navel plot beget gia echte impend me
(Come: Proviene
il navel: l’ombelico
plot: dal segreto
beget: della generazione
gia: già
echte: la verità
impend: è imminente
me: per me),
ovvero: Il mio ombelico è la traccia di un parto segreto; ma già la verità viene a galla in me. Alice dichiarò prima di Natale: Ho bisogno di un nuovo uccello per il cappello di Mademoiselle.[10] Flore tradusse: Je baise when dun nuvoloso pourlèche la peau de mad mazel
(Je baise: Scopo
when: quando
dun: grigio
nuvoloso: nuvoloso
pourlèche la peau de: lecca la pelle di
mad: folle
mazel: pianeta),
ovvero: Scopo quando le nuvole grigie del temporale leccano la pelle della terra impazzita. (O anche: Faccio l’amore nelle sere tempestose.)
Il doppio udito di Flore fu dapprima trans-europeo su onde corte, poi trans-atlantico su onde lunghe, infine trans-storico. Il Pastore che non poteva ignorare il latino di chiesa né l’ebraico biblico, disse un giorno: Quest’anatra all’arancia ha l’aroma delle paludi. L’hanno cotta abbastanza?[11] Flore tradusse: Seca nakhal or angelorum de maris lato assequi
(Seca nakhal: Il fiume a secco
or angelorum: la luce degli angeli
de maris lato: dalla parte del mare
assequi: raggiungere), ovvero: Quando il fiume è a secco, è la luce degli angeli che, dal mare, ci guida verso lei. Un’altra volta, mentre partiva in viaggio, mi promise: Ti manderò un regalo.[12] Flore tradusse: Sheva tov vaiah ou nekdou
(Sheva: Il nulla
tov: buono
vaiah: e Dio
ou: e
nekdou: la sua posterità),
ovvero: Viva il nulla! Viva Dio! Viva i suoi bambini! I due padiglioni auricolari di Flore a forma di parabola captavano così dei messaggi in lingue morte, segnali di galassie estinte, bottiglie nel mare d’onde arenate nel cavo del radiotelescopio.
Avrebbe disapprovato questi paragoni tecnici, perché tutto per lei era una faccenda di senso, voglio dire di feeling, traduco: di tuning. Il suo terzo orecchio era piuttosto una conca, un cratere dove lasciava, in un rilassamento controllato dei muscoli, entrare la lingua in risonanza con la sua ascendenza. Poiché Il Pastore l’interrogava sulla delirante decriptazione che ora metteva in atto per tutta la durata della conversazione, fu sorpreso di apprendere che si basava su dei principi, o meglio: che aveva basi scientifiche. Noi ci aspettavamo anche questo da lei. Glieli espose a spizzichi, uhm, di una teoria originale, che faceva alzare un sopracciglio e aggrottare l’altro:
Le lingue comunicano attraverso canali localizzati nella parte infantile del cervello, quella che rende i neonati poliglotti. Questo glossario innato appassisce, ma restano dei semi che si possono coltivare per avere qualcosa di ogni lingua. Un giardino di curato: fiori, ortaggi, alcuni alberi da frutto. Per concimare questo frutteto, la cosa migliore è possedere una lingua madre distante da quella praticata, che sembra dimenticata, ma è di fatto una lingua che ossessiona. (Capii: Flore viene a noi da altrove). Più il frutteto di parole cresce, più è lussureggiante, e più facilmente si scopre il significato nascosto delle frasi e dei pensieri altrui.
Era proprio, come avevo subodorato, un ramo della scienza di Flore, il suo mazzo segreto; non potevo più dubitare della sua estrema lucidità. A differenza dei dialetti vietati che popolavano fino ad allora l’infanzia, questo era dunque prodotto da lei scientemente, emesso come monologo ibrido ma tecnico, secondo intuizioni fonetiche che sposavano, da un capo all’altro del mondo, parole che s’ignoravano, anagrammi sognati da linguisti rincretiniti, etimologie popolari per lessicografi pazzi. Flore, nella sua modestia, ne parlava come di un savoir-faire che la cultura maschile relega nella zona merletti, decotti, pentole. Ma si riteneva capace di tradurre l’intenzione, foss’anche del tutto inconscia, di qualsiasi sequenza di suoni forgiati da uno che conosceva, sul modello
télétunestel sitélétunès mélétunétron
(Tes laitues naissent-elles ? Si tes laitues naissent, mes laitues naîtront[13]),
e questa sequenza tradirebbe sempre i pensieri, più o meno confessabili, più o meno ispirati, del suo autore. La prendemmo in parola, Tom soprattutto, versato fin dalla più giovane età nel pidgin improvvisato. Ci aveva spinto, Alice ed io, a fabbricare false parole in una ginnastica delle lingue. Avevamo imparato, tutti i tre, a declinarle, come per fissare una Grammère[14] che non esisteva, dunque a prima vista inutilmente. Ma ne serbavamo come un sottofondo di recitazioni, una tradizione orale:
filastrocche —
ilétromo leminu
ilémarto le bitu
ilévacha lebichèk
iléjafa lemitèk ;
iléradigu lerada
ilépaticu lepata
ilénafarichon lenaforich
ilémulidochon lemulidoch ;
ilébu ilébon ilébunibon
(o) ilébon ilébu ilébonibu,

kiladémi ? céladénom
kilabégi ? célabégum
kiladésiguon ? célassoudircom
kilémériton ? célaméritiom
kividalcaboui ? célacabanol
kividalmerdoui ? célamarigol ;


declinazioni —
mossa mossu mosso
mossi mossem morsto,
makchon makchan makcho
makchi makchem maksto ;


tavole
di far joui ? douch
tri far moui ? touch
vatocar far ocar ? matac bécar
minocar far ocar ? vanac macar
va pa do ? tro
tra pa do ? chlo
mar pa no ? slo
sar pa tmo ? stmo
(più difficile: )
sfra pa tswo ? sftswo
caxchtar pa muso ? caxchsmo
gz pa ptz ? pgtz
fchzt pa mchtz ? plchtz ;


proverbi —
dérobim dérobam, dérobadirodam
parali déparalo, dérapilapamalo
jentrini désornon, jeutrimbli désamlon
éklif odvat laven derpat, ékram arlat létan dachrat
tumaluladragi, da ! tumemplulatrabi, na !


enigmi —
ésitétélabono ? ésilavéladéflo ?
ésitexidérapo ? ésitralédivarso ?


lodi —
tanadébrouloftaf ! tanadéloufoldac !
tanadému ! tanadétru ! édisé kisondélé !
édéseu kiladénon ! édésorfi ! édésapli !


cantici —
ojodolfi ! omatéido !
ketmaradonlafon ! kétuméradiléfri !
comiladru dalfaroumi ! comimalu lagrafari !
Flore cogliendo sul fatto questo balbettio, lo prese molto sul serio, lo convertì in frasi per mezzo del suo decodificatore universale. Non ricordo più ciò che vi lesse, ma so che lo decifrò in modo talmente convincente che rinunciammo al segreto, praticando il pidgin soltanto per dargli l’opportunità di esercitare il suo talento. Così, potevamo parlare in scat
Babediboup, shebaberibop –,
lo cambiava in vocalese[15] (l’antivocalismo) ricomponendo delle frasi strambe –
A piccole boccate, bevo i miei dieci boccali.[16]
Riuscì con noi ciò che Tom aveva inscenato nel pidgin: dava senso ai nostri balbettii! dipanava il nostro bla-bla!
Il gioco ci piacque. Lo praticammo al dessert, lampade spente salvo la veilleuse sul tavolo, uno di noi quattro lanciava un nastro di eufonie che Flore afferrava al volo, ingoiava, le mani in piano bianche alle giunture, risputava gli occhi stralunati, lardellato di articoli di dizionari bilingui, con una voce sorda, rivolgendosi al farfuglione da anima ad anima sul tono imperioso di chi legge i vostri pensieri più reconditi. Con le parole, pensai, fa del bricolage, ma col senso non scherza.

 

[Dossier Wolfson, Gallimard, 2009, pp. 129-136]

 

[Traduzione di Alfredo Riponi. Note del traduttore:

  1. Madre adottiva
  2. Rondouce (ingl.): casseretto, parte di una nave situata sul ponte, e più elevata del resto del ponte.
  3. Madre naturale
  4. Inglese corrotto dal cinese, per est. lingua inventata.
  5. volapük: ‹volapü′k› s. m. [voce che in volapük significa «lingua del mondo», comp. di vol «mondo» (dall’ingl. world), -a, desinenza del genitivo, pük «lingua» (dall’ingl. speech)]. – Lingua internazionale inventata e diffusa con scarsa fortuna dallo studioso ted. J. M. Schleyer nel 1880: basata come tutte le altre lingue internazionali sull’estrema semplificazione morfologica e sintattica, è costituita prevalentemente da elementi lessicali inglesi, ma tanto mutati nei suoni da essere difficilmente riconoscibili. http://www.treccani.it/vocabolario/volapuk/
  6. L’almanacco Vermot, dal nome del suo fondatore Joseph Vermot, fu pubblicato per la prima volta il 1 gennaio 1886 e concepito per essere letto al ritmo di una pagina al giorno. Queste contengono alla rinfusa notizie pratiche, scherzi e giochi di parole, illustrazioni e diversi altri elementi. http://fr.wikipedia.org/wiki/Almanach_Vermot
  7. Gioco di parole tra “distrutte” e “delle trote”.
  8. Inversione burlesca delle lettere o delle sillabe in un gruppo di parole. Imitare deridendo.
  9. « Comme il n’y avait plus de baguette, j’ai acheté un pain de mie ».
  10. « J’ai besoin d’un nouvel oiseau pour le chapeau de Mademoiselle ».
  11. « Ce canard à l’orange a l’arôme des marais. L’a-t-on assez cuit ».
  12. « Je vais t’envoyer un cadeau ».
  13. (Le tue lattughe nascono? Se le tue lattughe nascono, le mie lattughe nasceranno)
  14. Gioco di parole tra “grammaire” (grammatica) e “grand-mère” (nonna)
  15. Vocalese: (parola composta da vocalize più il suffisso -ese a indicare un linguaggio) è uno stile canoro jazz in cui le parole sono adattate a melodie originariamente eseguite come composizione orchestrale o improvvisata. Mentre il fraseggio scat adopera parole improvvisate e prive di senso, scelte per il loro suono e andamento ritmico, il vocalese usa una normale versificazione, a volte improvvisata, a volte scritta sulla base di un assolo preregistrato. http://it.wikipedia.org/wiki/Vocalese
  1. Par petit bouts, je bois mes dix bocks.]

 

 

★ ★ ★

 

 

 

La Science de Nous infusant Flore, nos essences pénétrant son sein, il s’opéra chez elle aussi une mutation, la dernière, qui fut sa gloire. Était-ce hormonal ? Le noir se concentra dans ses cheveux au lieu du blanc prévu, et dans ses yeux au lieu du bleu, une ombre duvetée orna sa lèvre, assombrissement qui rendait Flore plus rassurante, en sorcière bien-aimée. Sa cage thoracique surtout s’ouvrit ainsi qu’une fleur sous pression d’une inspiration, oui son buste était bien plus ample, projetait une poitrine pas sexuée, l’unique mamelle aux contours flous sous pulls en cachemire. Rondouce génisse génitrice en demi-deuil au clair de lune, compagne de sommeil dans le foin d’une grange, elle chantonnait : Rest
rest
rest on my breast. Sa voix — rognée par le tabac ? — avait mué vers le baryton, son odeur — tournée dans la fumée ? — s’était chargée d’une épice rappelant un pays de l’Est non loin de la Bohême de Rose ; le paprika. Arôme thérapeutique. Bref elle était une autre, l’ombre de Son Savoir. Cet exotisme nous parut une qualité plus réelle, accent qui nous avait échappé d’abord, qui une fois reconnu nous crevait les tympans.
Rose nous avait bien fait le coup du tchèque, notre langue mère pas maternelle
puis avec Jim le coup de la langue privée — dont on vous prive pour messes basses
Tom, celui du pidgin, fausse grammaire qui fît presque illusion
et Théo celui de l’écriture pianistique — volapük :
maintenant je me persuadai sans peine que Flore avait langue secrète et origines idem, quelque chose de pas catholique et non indo-européen. Finnois ? hongrois ? basque ? mongol ? Dans cet idiome devait se concentrer son infinie compréhension, dont il était le thésaurus. Elle s’y serait déposée à un degré de densité d’autant plus grand que l’idiome serait opaque, corps qui en fixe un autre, d’un liquide fait un sel. Certes, rien ne me prouvait qu’il y avait dans sa mémoire, si prodigieuse fût-elle, une telle langue mère, rien n’indiquait quelle elle serait. Mais il se trouve que Flore à cette époque fit la preuve de son don des langues.
Un auditeur distrait aurait dit qu’elle se mettait à faire des calembours cosmopolites. Elle commença timidement par des traductions français-français dans le genre Almanach Vermot (Ah, la manne à vers-mots ! reprenait-elle). Au poissonnier qui lui apprenait qu’on péchait les truites de culture au filet, elle rétorqua : Vous voulez dire qu’enfilées elles sont détruites ? Quelquefois, en effet, un message érotique affleurait comme dans le contrepet, mais sur le mode savant pas salace et clinique pas clownesque. Bientôt elle s’enhardit et franchit les frontières. La manie devint vice, qui eut le don d’horripiler Le Pasteur partisan d’une herméneutique dans les limites de la simple raison, Tom dit en rentrant de l’école : Comme il n’y avait plus de baguette, j’ai acheté un pain de mie. Flore traduisit : Come il navel plot beget gia echte impend me
(Corne : II provient
il navel : le nombril
plot : du secret
beget : de l’engendrement
gia : déjà
echte : la vérité
impend : est imminente
me : pour moi), soit : Mon nombril est la trace d’un enfantement secret ; mais déjà la vérité se fait jour pour moi. Alice déclara avant Noël : J’ai besoin d’un nouvel oiseau pour le chapeau de Mademoiselle. Flore traduisit : Je baise when dun nuvoloso pourléche la peau de mad mazel
(Je baise : je baise
when : quand
dun : gris
nuvoloso : orageux
pourlèche la peau de : pourlèche la peau de
mad : folle
mazel : planète), soit : Je baise quand les grises nuées de l’orage pourlèchent la peau de la terre en folie. (Soit encore : Je fais l’amour les soirs d’orage.)
La double ouïe de Flore fut d’abord transeuropéenne en ondes courtes, puis transatlantique en grandes ondes, enfin transhistorique. Le Pasteur, qui ne pouvait ignorer ni le latin d’église ni l’hébreu biblique, dit un jour : Ce canard à l’orange a l’arôme des marais. L’a-t-on assez cuit ? Flore traduisit : Seca nakhal or angelorum de maris lato assequi
(Seca nakhal : Le fleuve à sec
or angelorum : la lumière des anges
de maris lato :. du côté de la mer
assequi : atteindre), soit : Quand le fleuve est à sec, c’est la lumière des anges qui, depuis la mer, nous guide vers elle. Une autre fois, alors qu’il partait en voyage, il me promit : Je vais t’envoyer un cadeau. Flore traduisit : Sheva tov vaiah ou nekdou
(Sheva ; Le néant
tov : bon
vaiah : et Dieu
ou : et
nekdou : sa postérité), soit : Vive le néant ! Vive Dieu ! Vive ses enfants ! Chacun des deux pavillons de Flore à forme de parabole captait ainsi des messages en langues mortes, signaux de galaxies éteintes, bouteilles à la mer d’ondes échouées au creux du radiotélescope.
Elle eût désapprouvé ces comparaisons techniciennes, car tout pour elle se résumait à une affaire de sens, je veux dire de feeling, je traduis : de tuning. Son oreille, la troisième, était plutôt une conque, un cratère où elle laissait, dans un relâchement contrôlé des muscles, la langue entrer en résonance avec son ascendance. Comme Le Pasteur la questionnait sur le délirant décryptage qu’elle assenait maintenant à longueur de conversation, il fut surpris d’apprendre qu’il répondait à des principes, et mieux : qu’il ressortissait à la science. Nous n’en attendions pas moins d’elle. Elle les lui exposa par bribe d’une théorie, hm, originale, qui faisait hausser un sourcil froncer l’autre :
Les langues communiquent par des canaux situés dans la part du cerveau enfantine, celle qui rend les nourrissons omniglottes. Ce glossaire inné se fane, mais il en reste des semences qu’on peut cultiver pour avoir un peu de chaque langue. Un jardin de curé : des fleurs, des plantes potagères, quelques arbres fruitiers. Et pour engraisser ce verger, le mieux est encore de posséder une langue maternelle éloignée de celle pratiquée, semble-t-il oubliée, en fait hantant. (Je compris : Flore nous vient d’ailleurs.) Plus le verger de mots croît, plus il est luxuriant, et mieux on décèle la signification cachée des phrases et des pensées d’autrui.
C’était bien, comme je l’avais subodoré, une branche de la science de Flore, et même sa botte secrète ; je ne pouvais plus douter de son extralucidité. À la différence des dialectes interdits qui peuplaient jusque-là l’enfance, celui-ci était donc produit par elle sciemment, émis comme monologue hybride mais expert, au gré d’intuitions phonétiques mariant des mots qui s’ignoraient d’un bout à l’autre du monde, anagrammes rêvées par linguiste gaga, étymologies populaires par lexicographe fou. Flore, dans sa modestie, en parlait comme d’un savoir-faire que la culture mâle relègue dans la zone dentelle, décoctions, marmites. Mais elle se prétendait capable de traduire l’intention, fût-elle tout à fait inconsciente, de n’importe quelle séquence de sons forgée par un qu’elle connaissait, sur le modèle
télétunestel sitélétunès mélétunétron
(Tes laitues naissent-elles ? Si tes laitues naissent, mes laitues naîtront),
laquelle séquence trahirait toujours les pensées, plus ou moins avouables, plus ou moins inspirées, de son auteur. On la prit au mot, Tom surtout, versé depuis son plus jeune âge dans le pidgin improvisé. Il nous avait entraînés, Alice et moi, à former des faux mots pour la gymnastique des langues. On avait appris tous les trois à les décliner, comme pour fixer une Grammère qui n’était pas, donc en pure perte apparemment. Mais il nous en restait tout un fonds de récitations, une tradition orale :


comptines —
ilétromo leminu
ilémarto le bitu
ilévacha lebichèk
iléjafa lemitèk ;
iléradigu lerada
ilépaticu lepata
ilénafarichon lenaforich
ilémulidochon lemulidoch ;
ilébu ilébon ilébunibon
(ou) ilébon ilébu ilébonibu,

kiladémi ? céladénom
kilabégi ? célabégum
kiladésiguon ? célassoudircom
kilémériton ? célaméritiom
kividalcaboui ? célacabanol
kividalmerdoui ? célamarigol ;


flexions —
mossa mossu mosso
mossi mossem morsto,
makchon makchan makcho
makchi makchem maksto ;


tables —
di far joui ? douch
tri far moui ? touch
vatocar far ocar ? matac bécar
minocar far ocar ? vanac macar
va pa do ? tro
tra pa do ? chlo
mar pa no ? slo
sar pa tmo ? stmo
(plus difficile 🙂
sfra pa tswo ? sftswo
caxchtar pa muso ? caxchsmo
gz pa ptz ? pgtz
fchzt pa mchtz ? plchtz ;


proverbes —
dérobim dérobam, dérobadirodam
parali déparalo, dérapilapamalo
jentrini désornon, jeutrimbli désamlon
éklif odvat laven derpat, ékram arlat létan dachrat
tumaluladragi, da ! tumemplulatrabi, na !


énigmes —
ésitétélabono ? ésilavéladéflo ?
ésitexidérapo ? ésitralédivarso ?
 

louanges —
tanadébrouloftaf ! tanadéloufoldac !
tanadému ! tanadétru ! édisé kisondélé !
édéseu kiladénon ! édésorfi ! édésapli !


cantiques —
ojodolfi ! omatéido !
ketmaradonlafon ! kétuméradiléfri !
comiladru dalfaroumi ! comimalu lagrafari !
Flore, qui surprit ce babillage, le prit très au sérieux, le convertit en phrases au moyen de sa décodeuse universelle. Je ne sais plus ce qu’elle y lut, mais je sais qu’elle le déchiffra de façon tellement convaincante que l’on renonça au secret, ne pratiquant plus le pidgin que pour lui fournir l’occasion d’exercer ses talents. Ainsi, nous pouvions parler en scat —
Babediboup, shebaberibop —,
elle le changeait en vocalese (l’antivocalise) en y reconstituant des phrases loufoques —
Par petit bouts, je bois mes dix bocks.
Elle réussit avec nous ce que Tom avait simulé dans le pidgin : elle donnait sens à nos babils ! elle débrouillait notre bla-bla !
Le jeu nous plut. On le pratiqua au dessert, lampes éteintes sauf veilleuse sur la table, l’un de nous quatre lançant un ruban d’euphonèmes que Flore rattrapait au vol, gobait, les mains à plat blanches aux jointures, recrachait les yeux révulsés, entrelardé d’articles de dictionnaires bilingues, d’une voix sourde, s’adressant au baragouineur d’âme à âme sur le ton impérieux de qui lit vos arrière-arrière-pensées. Avec les mots, pensai-je, elle bricole, mais avec le sens elle ne plaisante pas.