Oggi un nuovo ebook su gammm.org: l’intervista Il senso delle parole, di Jean-Marie Gleize. Il file pdf [88 Kb] è scaricabile dalla pagina gammm/ebooks. L’intera intervista è anche leggibile, integralmente, qui sotto.
*
Today, a new ebook at gammm.org. It’s an interview: Il senso delle parole, by Jean-Marie Gleize. You can download the pdf file [88 Kb] @ gammm/ebooks. You can also read the whole interview below.
*
Jean-Marie Gleize, lei pensa che in Francia ci sia, o ci sia stato, un movimento poetico che raccolga assieme autori come Christophe Hanna, Nathalie Quintane, Charles Pennequin, Christophe Fiat, Olivier Cadiot, Pierre Alferi, Anne Portugal, Jean-Michel Espitallier, Anne-James Chaton, Jérôme Game, Éric Sadin, Vannina Maestri, Manuel Joseph, un movimento di cui anche lei fa parte? Parlerebbe, al riguardo, di avanguardia? Rispetto a questi autori, qual è la sua posizione?
È giusto chiedersi, specificando come fa lei, se ci sia o se ci sia stato un movimento poetico, perché rispetto ai vent’anni seguiti alla svolta degli anni Ottanta, in questo nostro primo quindicennio del XXI secolo, la situazione non è più la stessa. La maggior parte dei “giovani” poeti di cui lei ha citato i nomi, e che hanno rappresentato la generazione emergente degli anni Ottanta-Novanta, sono ora cresciuti e affermati e, rispetto ad allora, evidentemente meno disposti a contribuire a operazioni di identificazioni collettive (identificazioni che possono comunque rientrare in una strategia di riconoscimento o rappresentare un modo per assicurarsi da attacchi esterni). Questa nuova situazione è, ovviamente, dovuta al fatto che, dopo quei primi momenti, hanno pubblicato parecchi libri, costruendo propri percorsi e riuscendo a rendere percepibili e comprensibili le proprie differenze. Il motivo per cui i nomi che lei ha fatto, assieme a qualcun altro, possono essere citati congiuntamente, è soprattutto che tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta li ritroviamo tutti su un certo numero di riviste, riviste che sono del resto essi stessi a creare, visto che nessuno dei “grandi” periodici allora sul mercato sembra corrispondere a quello che stanno facendo o a quello che sperano di leggere. Vannina Maestri, Jean-Michel Espitallier e Jacques Sivan fondano Java nel 1989; io metto in piedi Nioques nel 1990; Nathalie Quintane, Christophe Tarkos e Stéphane Bérard creano RR nel 1993; Christophe Fiat e Anne-James Chaton fondano TIJA (The Incredible Justine’s Adventures) nel 1997, Olivier Cadiot e Pierre Alferi pubblicano i due numeri della Revue de Littérature Générale tra il 1995 e il 1996, Vincent Tholomé fa uscire nel marzo del 1996 il primo numero di TTC (Tombe tout court), su cui appaiono fin dall’inizio i nomi di Charles Pennequin e di Christophe Tarkos, seguiti ben presto da quelli di Vannina Maestri e di Jacques-Henri Michot; Christophe Tarkos e Katalin Molnar fondano Poézie prolétèr nel 1998… Non si può negare che tutto questo contribuisca a definire uno specifico campo, o, meglio, un territorio preciso all’interno di uno specifico campo. In parte, si tratta di una reazione a quello che, dopo il 1980, si è venuto presentando come un ritorno al “lirismo” e ai fondamenti tematici e formali della poesia poetica (quella che io chiamo “ri-poesia”). In parte, si prendono le distanze dallo “stile” delle ex neoavanguardie, testualiste o formaliste che siano, egemoni nel corso del doppio decennio degli anni Sessanta-Settanta (in sostanza: posa teorica seriosa, atteggiamento profetico-ideologico, rigore dogmatico, struttura gruppuscolare e una certa propensione alle “teorie d’insieme” — il tutto secondo un modello di funzionamento largamente ereditato dalle avanguardie storiche degli anni Venti e Trenta). Contro i primi, ci si rifiuta di credere che la “fine” delle avanguardie possa aprire le porte a una restaurazione pura e semplice della Poesia, intesa sub specie æternitatis. Contro i secondi (o meglio: contro e assieme ai secondi) vengono acquisite tutte quelle interrogazioni e conquiste critiche della modernità poetica in grado di funzionare come punto di partenza e di permettere, poi, con assoluta libertà di movimento (con ironia e umorismo per molti), la creazione di forme e oggetti nuovi, ibridi, post-poetici e trans-generici. Ci troviamo così di fronte a un momento e a uno spazio che si costituiscono ormai privi di un centro o di un polo d’attrazione dominanti. La nozione di rete si fa assai più pertinente rispetto a quella di gruppo, o di movimento. Lo spazio comune di cui sto parlando è composto di micro-spazi (nel mio vocabolario: “capanne”) più o meno effimeri e transitori, dove la circolazione è libera. Tutti i nomi che lei ha citato, assieme a quelli che ho aggiunto io alla sua lista (senza con questo essere esaustivo), sono presenti su quasi tutte le riviste di cui ho appena ricordato i titoli. Naturalmente, visto che lei mi pone la domanda, le dirò che anch’io posso affermare di aver partecipato pienamente a questo momento e a questo spazio, non fosse altro per il fatto di essermi attivamente impegnato a fare in modo che questo spazio esistesse e prendesse corpo: attraverso la mia rivista Nioques (che ha pubblicato Tarkos, Manuel Joseph, Olivier Quintyn, Tholomé, Pennequin, Leibovici ecc.) ma anche attraverso la collana di libri collegata alla rivista e pubblicata dalla casa editrice Al Dante di Laurent Cauwet. È, per esempio, in questa collana che abbiamo pubblicato il primo libro di Christophe Hanna (Petits poèmes en prose), come anche parecchi dei libri di Christophe Tarkos (a cominciare da Oui, nel 1996), il fondamentale ABC de la barbarie di Jacques-Henri Michot, alcuni libri di Jacques Sivan ecc. Nathalie Quintane fa ancora oggi parte del comitato di redazione di Nioques, e abbiamo rapporti molto stretti con il gruppo della casa editrice Questions théoriques. Come a dire che la “cosa” continua… Mi pare però necessario sottolineare che l’insieme globale di queste pratiche non può essere semplicemente definito come un insieme indifferenziato e privo di contraddizioni: all’interno dello spazio dato, ognuno degli scrittori occupa una propria area di “gioco” e si muove portandosi dietro i propri punti di riferimento, il proprio contesto teorico, le proprie particolari procedure, prese in prestito o inedite che siano. Mi pare che autori come Hanna, Quintyn o Leibovici, che pensano la propria pratica in termini di “dispositivo”, che riattivano la nozione di scrittura documentale (sulla scorta degli oggettivisti americani) e addirittura di rimediazione (riciclaggio, collage, cut up, montaggio ecc.) e che lavorano in dialogo con i filosofi pragmatisti, non vadano confusi con quanti portano avanti in maniera esplicita i cantieri della tradizione sperimentale per come è stata trasmessa (“poesia elementare”, “poesia visiva”, “poesia sonora”, “performance” ecc.). Alcune delle similitudini e prossimità apparenti richiederebbero di essere prese seriamente in esame. Anche l’impresa di spersonalizzazione del documento (portata avanti, per esempio, da “La redazione”, che di fatto neutralizza ogni rimasuglio soggettivo rimasto attaccato alla nozione di “scrittura”) non va confusa con il non meno spettacolare rilievo dato al “performer” e al suo nome (Fiat o Tarkos, con le loro “improvvisazioni”, partono dall’evidentissimo presupposto che la “presenza” e la “diretta” siano assolutamente efficaci). C’è qualcosa di più di una semplice differenza tra il concetto di “faccialità” concepito da Charles Pennequin con una forza verbale e un’energia fisica esemplari e l’idea di “letteralità” che porto avanti io, prosa in prosa, piattezza spietata, principio di nudità integrale. Ci deve essere di mezzo qualcosa di più di una sfumatura se a me pare necessario cercare di “uscire” dalla poesia (senza dubbio perché il mio luogo teorico d’origine è la tradizione critica di quest’ultima, vale a dire Francis Ponge e Denis Roche), mentre per molti degli artisti di cui stiamo parlando l’idea stessa di poesia (o di pratica poetica, in senso più largo e problematico) può o deve essere conservata. In forma un po’ caricaturale, Jean-Michel Espitallier scriveva nel 2000 la prefazione alla sua antologia Pièces détachées, in cui presentava alcuni esempi della “poesia francese di oggi”. Al momento di sostenere che secondo lui non esisteva alcuna spiegazione obiettiva (di natura storica, socio-culturale o altro) all’emergere di questa poesia negli anni fra il 1985 e il 2000, si esprimeva in questi termini: «La spiegazione è il testo poetico. L’irripetibile e singolare discorso dell’opera d’arte. La poesia come abbagliante coincidenza con sé stessa». È difficile, leggendo queste stupefacenti righe, resistere alla tentazione di portare alla luce del sole tutto quello che può veramente separare quanti si trovano troppo spesso e troppo semplicisticamente identificati gli uni con gli altri. Sono relativamente poco sensibile alla sopravvalutazione, all’interno di questa tradizione, della distanza ironica (senza dubbio, si tratta di un tratto caratteriale), e ancor più sospettoso nei confronti di quanto a me pare rientrare, da vicino o da lontano, in un pregiudizio ludico o, per altri versi, assai palesemente formalista (manipolazione delle procedure, gusto neoparnassiano per i virtuosismi ecc.). Mi sento molto più vicino a quanti hanno definitivamente smesso di trasformare la poesia in un feticcio, quasi fosse un sovra-linguaggio o un linguaggio separato. Non penso in effetti di condividere nulla con quelli che scrivono “poesie” e poi le “raccolgono” ecc., neppure se si dimostrano capaci di inventarsi forme nuove, forme che possono chiamare cine-poesie, poesie commestibili, o chissà che altro. Considero la forma-poesia un po’ come la pittura tematica da cavalletto. Per il resto, mi trovo in evidente sintonia con chi cerca le proprie pratiche tenendo obiettivamente presenti le nuove forme con cui ci relazioniamo al reale. Senza sviluppare ulteriormente il concetto, potrei dire: le forme attuali dell’oggettivismo post-poetico — forme da inventare.
Questo movimento di scrittura ha un futuro? Come si evolverà?
Come le ho appena detto, questa tradizione non fa “movimento”. Il nostro futuro è il nostro presente. La nostra attualità, la nostra attività. Il nostro impegno. Quello che stiamo facendo. Il profilo che siamo in grado di dare a questioni e a pratiche di creazione o di restituzione davvero liberate da superstizioni estetizzanti e poetiche. Dico «noi» appunto perché so che tutto quello che ho affermato poco sopra non implica alcuna teoria o scuola.
Di che genere sono le influenze sulla sua scrittura? Letterarie? Filosofiche? Di altro tipo? Qual è l’importanza, per lei personalmente, di filosofi come Deleuze e Guattari, o come Derrida? Del post-strutturalismo? Lei ha un progetto creativo di partenza o si muove all’avventura?
Spero di non sconvolgere nessuno rifiutandomi categoricamente di rispondere alla domanda sulle “influenze”. Se percorriamo il ciclo dei sette volumi che ho pubblicato con le Éditions du Seuil, scopriremo, incorporati (testualizzati, finzionalizzati), un certo numero di richiami che vanno da Angelo Silesio a Kurt Cobain, da Max Stirner ad Angela da Foligno, da Édouard Levé a Nan Goldin, da Mallarmé a Robespierre, da Cage a Beuys ecc. A contare sono solo questi richiami, solo la memoria sensibile che si trova inscritta e che affiora sotto forma di traccia più o meno percepibile. Per quanto riguarda il resto, per quanto riguarda la biblioteca filosofica degli anni dei nostri studi e della nostra formazione (quindi i nomi che lei cita, quelli dei nostri gloriosi anni Settanta, ma anche — e perché no? — quelli di Marx e di Lenin, di Platone e del benedetto Althusser, di Lacan, di Barthes e della Kristeva), per quanto riguarda questi Grands Transparents che sfilano, in ordine sparso, nelle tesi e nelle tesine dei nostri studenti, cerco di non pronunciare mai i loro nomi ed evito sempre di rifugiarmi dietro la loro autorità. No, davvero. Si trovano già dentro. Personalmente, non direi che ho un “progetto creativo” di partenza. E non direi neanche che mi muovo all’avventura. La questione non si pone, per me, in questi termini. Si tratta piuttosto di metodo. Ho cominciato, parecchi anni fa, a mettere in piedi una strategia di confronto con l’opacità ambiente (il reale in quanto insieme di segni neri). La prima tappa del mio percorso è consistita nel girare attorno a un lago (il lago Lemano) per poi finire letteralmente e veramente portato dalla forza delle “cose” e della “scrittura” di fronte ad altri laghi (in Cina o nel Vermont, per esempio). L’ultima tappa a oggi è stata quella di tentare un “ritorno” (a Tarnac), un’immersione attiva, anche politica, nello spessore vegetale. Quella che importa è l’idea che i sette libri del ciclo rappresentino per prima cosa dei “diari di esperienze”, o anche dei protocolli sperimentali (dispositivi) che consegnano (appuntano) un certo numero di “atti” di ricerca (tentativi di delucidazione, procedure inquisitrici) e di risultati (o parcelle incerte di risultati). Ossia: un lavoro pratico di inchiesta a partire da una sensazione di enigmaticità (vale a dire: “domande”). L’inchiesta si costruisce per accorpamento di dati o di elementi (testi, documenti diversi, informazioni raccolte da fonti varie ed eterogenee) in forma di dossiers (cfr. per esempio il capitolo «Ouverture du dossier le réel», in Néon). Gli atti sono le raccolte di verbali, le testimonianze. Date un’occhiata ai dossiers dell’arte concettuale, o ai documenti (scritti, fotografati o filmati) che descrivono e registrano le azioni di certi body artists (Gina Pane, per esempio). Il problema rimane per me quello di inventare un sistema di trascrizione adeguato al percorso in atto. Il collage, il montaggio e i campionamenti sono, in questo contesto, procedure privilegiate: manipolazione di elementi prelevati da archivi testuali o altro, immagini fotografiche o disegnate (graffitate), moltiplicazione delle procedure di cattura (o di descrizione) del reale in tanti dispositivi o “installazioni” quante sono le situazioni prese in esame. «In ogni caso / le distinzioni correnti fra dentro e fuori scompaiono / & il legame delle cose (idee, parole) / (…) contano ora soltanto / le leggi del montaggio / e il gioco (teatrale) delle ruote» (Néon, p. 51). Insomma, quella che io chiamo “prosa in prosa” è l’insieme di queste azioni inquisitrici o testimoniali, e dei gesti e delle procedure flessibili e provvisorie che tendono a “conformarsi” a tutto quello che ha luogo (fatti, circostanze, accidenti e incidenti).
Ultimamente, la sua scrittura si è spesso attestata su posizioni politiche radicali e anticapitaliste. Si tratta di una strategia filosofica o puramente politica? Lei definirebbe il suo impegno politico come comunista, o preferirebbe descriverlo in un altro modo?
Confesso che non riesco a immaginare in cosa possa consistere una strategia “puramente” politica o cosa possa significare il dover scegliere tra queste alternative, tra filosofia e politica. Nel mio libro Tarnac, un acte préparatoire affermo che «occorre costruire capanne». Questa è, se vogliamo, una specie di parola d’ordine “politica” in grado di sostituire le parole d’ordine correnti. Scrivo anche che occorre «andare verso un albero», o che bisogna riuscire a «usare gli accidenti del terreno» («Per scrivere, uso gli accidenti del terreno»). Ecco un’idea francescana. Penso qui al film di Rossellini, Francesco, giullare di Dio (1950). Francesco e i suoi futuri discepoli camminano a piedi nudi nel fango e sotto la pioggia battente. Cadono e poi si rialzano. Nel giro di poco tempo, si mettono a costruire quelle capanne che sono destinate a diventare il nucleo centrale del loro ordine, fondato sull’idea di povertà, nudità e umiltà. E su quella di comunità. Comunità più o meno provvisorie, luoghi alternativi. Qualcosa come un’utopia concreta. A Tarnac, un paesino della regione francese del Limousin, esiste una comunità fondata in particolare sul rifiuto delle norme e dei “valori” che reggono la nostra società capitalista di mercato cosiddetta “liberale” (il profitto, la competizione, la concorrenza ecc.). I cittadini di quella regione sono, io credo, diffidenti nei confronti della politica istituzionale, ma anche dei principi che governano le organizzazioni di estrema sinistra. È per questo motivo che il governo parla di loro come di “ultra-sinistra”. Rimane il fatto che si tratta specificatamente di una tradizione che cerca di pensare forme di radicalità politica difficili da collocare sullo scacchiere cui siamo portati a pensare normalmente. Personalmente, condivido il loro desiderio e mi sento vicino al loro modo di essere. Una capanna è per definizione un rifugio effimero: può essere attaccato e distrutto, ma può sempre essere ricostruito altrove. Un buon esempio di quello che significa per me il termine “capanna” è rappresentato dalla rivista che ho fondato nel 1990, una rivista che continua a resistere anche oggi. Nioques è un progetto nomade che ha conosciuto finora ben cinque editori — ed è solo uno degli esempi di questi rifugi provvisori, capaci di accogliere proposte flessibili. Si tratta di un cantiere, di un luogo di passaggio, di uno spazio aperto a quanti arrivano e a quanto succede. Come tutte le altre riviste, anche Nioques è destinata a scomparire, a ricostruirsi, a trasformarsi e così via. Per quello che mi riguarda, tendo a considerare la capanna come una categoria dinamica, come un modo molto immediato per inserirsi politicamente nel reale, per intervenire nel reale. Senza dubbio, sì, io sono “comunista”, e lo sono in un senso che in parte sfugge persino a me stesso. So per esempio che la regione attorno a Tarnac è stata storicamente (durante la guerra) territorio della Resistenza, dei partigiani, e che tutto questo era come inscritto nel paesaggio (le lande, le foreste cupissime, i rilievi accidentati). Nel libro collettivo pubblicato dalle Éditions de La Fabrique nel 2011 (Toi aussi tu as des armes), scrivo che «lo scrittoio e la scrittura implicano che si operi all’interno di una profonda opacità». Ecco: scrivere mi obbliga a compiere una specie di traversata dell’opacità. Dal punto di vista poetico siamo degli attori incerti, però dal punto di vista politico vorremmo essere efficaci. È dentro questa incertezza che si inscrivono la scrittura e la serie degli “atti preparatori”. Di lanciare messaggi, non se ne parla proprio. Eccomi dunque avanzare alla cieca e con ostinazione (Francis Ponge parlava di «rabbia») in mezzo all’opacità, alla rugosità e alla violenza del reale. Tornando, per chiudere, a quella parola (“comunismo”) e all’ipotesi che essa mette in campo, mi ricordo di questa passeggiata assieme a Wang Dong Liang attorno al «lago senza nome» dell’Università di Pechino, una passeggiata che racconto nel mio libro Léman: ci interrogavamo su questa parola “sporca”, o sporcata: “comunismo”. Giravamo attorno a un buco, a un lago «senza nome»: attorno a una parola che non ha più un senso. Espressa oralmente, c’era, in quella nebbiolina che saliva freddissima dalla sera, come una scrittura critica della politica. Ecco: io mi trovo (sempre) a quel punto. A cercare il senso delle parole. Non da solo, ma assieme ad altri. Per il resto, non saprei.
[Traduzione di Michele Zaffarano]