da: Machine-Manifeste, Léo Scheer, 2003.
Non siamo in effetti, noi stessi così come ogni cosa, nella nostra percezione, materiali da disporre?
Charles Olson
Bernard Rival, l’editore e uno dei traduttori dei testi («versi e prose») di Charles Olson, mi diceva che quest’ultimo cominciava molti lavori, poi li abbandonava. È per questa ragione che aveva scelto di intitolare questo libro Commencements.[1] Cominciare sempre in modo diverso, essere sempre altrove, lasciare le cose in stato di apertura, era per Olson, più che un modo funzionale, un modo di essere al mondo.
Poiché Charles Olson ha provato a reintegrare l’uomo nella sua physiquéité per reinserirlo tra le cose, e non al di sopra o accanto ad esse, è necessario leggerlo. Ciò ci permetterà di comprendere meglio perché in Francia molti scrittori che si definivano d’avanguardia non erano in realtà che i continuatori della vecchia tradizione umanistica. Per comprendere al meglio la posta in gioco conviene, come dice Olson, fare un po’ di storia letteraria.
È segnatamente a partire da Melville che, secondo Olson: «Un’idea prese corpo, ed energia e movimento guadagnarono in importanza in quanto struttura delle cose così come il fatto che siano plurali e, attraverso la materia, massa. […] e l’uomo, nel bel mezzo, sapendo bene fino a che punto vi si trovava incorporato, così come a quale velocità e in quale stupefacente modo poteva estendersi, slanciarsi […] possedeva improvvisamente o riprendeva possesso di una disposizione dell’essere, cosa tra le cose, che chiamerò la sua physiquéité […]. La realtà era ininterrotta, e ciò che ci impegna ancora, è scoprire il modo in cui l’azione e il pensiero, nella loro integrità, devono essere rifondati».[2]
Si può osservare che il modello che Olson ci propone è estraneo a ogni taglio, ma anche a ogni fusione. È ignorata qui ogni forma marcata e definitiva di binarità: soggetto/oggetto, reale/simbolico, ecc. Si tratta piuttosto, per Olson, di suscitare delle nascite, dei cominciamenti per riattivare il reale che siamo; da cui, nel migliore dei casi, il continuo emergere di singolarità plurali e non gerarchizzate. Ciò che importa innanzitutto, scrive, è di non essere confrontati «alla “classe” di una cosa, alla gerarchia, qualità o quantità, ma [a] la cosa stessa, e [a] la sua pertinenza in noi che ne siamo l’esperienza […]».
Qualche riga dopo Olson precisa il suo pensiero. Parlando della scrittura dei maya scrive, «essi [i segni] custodivano il potere degli oggetti di cui erano l’immagine». Se i segni non sono superficialmente che l’immagine degli oggetti, hanno tuttavia la capacità inaudita di assumerne il potere. Rovesciando la proposizione si può dire che gli oggetti non sono che l’immagine del potere proprio a ciascuno di essi, potere che è, come abbiamo appena detto, alimentato e gestito dal segno. Il segno diventa allora il motore, l’anima (questo piccolo cilindro di legno che permette al violino di avere una sonorità particolare) delle cose.
«La fisica quantistica […] fornirà qui […] una prova appropriata, di ciò a cui Melville si aggrappava quando dichiarava che ciò che inseguiva, era la verità visibile. Per esempio, che la luce non è soltanto onda ma corpuscolo o che l’elettrone non è soltanto corpuscolo ma onda. Melville non poteva abusare dell’oggetto come fa il simbolo, deprezzandolo a favore del soggetto. O ancora, lasciare l’immagine perdere la sua forza relazionale restituendo la sua apparizione come fa l’allegoria. Aveva già consapevolezza della complementarità di ciascuna delle coppie che formano la nostra conoscenza e il modo di presentare il reale – l’immagine e l’oggetto, l’azione e il soggetto – l’una e l’altra coppia essendosi rivelate da tempo efficaci».[3]
L’uomo, nella sua physiquéité, non sfugge a questa constatazione. Come ogni forma di realtà deve essere dinamizzato dal segno. Perciò questa domanda di Olson: «Possiamo riformulare l’uomo in modo tale da restituirgli il suo dinamismo?» Perché, ci ripete ancora: «Non posso accontentarmi del fatto che queste sedicenti cose interne siano così separabili dagli oggetti, persone, avvenimenti che ne sono la sostanza» e aggiunge: «Il processo dell’immagine (per essere più esatti, relativamente alla trasposizione, che l’“anima” non permette, o che non permettono gli analisti con la loro astuta “simbolizzazione”) non può essere compreso se è separato da ciò su cui opera».
Al contrario: «Se l’uomo sceglie di trattare la realtà esterna altrimenti che come parte del proprio processo […] l’utilizza allora […] difformemente. Ne farà esattamente uso come l’utilizza da ormai troppo tempo, in vista di obiettivi arbitrari e deliberati […]». Da qui questa amara riflessione: «più vivo più sono portato a credere che la ragione ultima per la quale l’uomo si allontana dalla natura […] è che appartiene a un’orda che vuole fare assolutamente ciò che la natura disapprova – dilapidare l’energia».
Qui Olson si avvicina a Ezra Pound che concepiva la scrittura come la messa in pratica di una vera e propria economia politica. Proclamava «la legge del giusto mezzo», quella che permette la più equa, la migliore (perché più in armonia con la natura), ripartizione dei flussi. Questa legge, Pound la prese a prestito dalla civiltà cinese. Parimenti Olson manifesta un interesse similare per la cultura maya. Questi due popoli (ce ne sono fortunatamente anche altri) considerano l’uomo come facente parte integrante del suo ambiente naturale. Il suo ruolo consiste, non nell’essere «padrone e possessore della natura» ma al contrario, nel riequilibrare e riattivare sempre l’energia che l’anima. Ecco allora queste parole meditate, riprese e scritte in lettere capitali da Olson: «L’ARTE È LA CELEBRAZIONE DEL MOMENTO […] SOLO L’ARTISTA […] È TEMPESTIVO».
Questa è, per Olson così come per Pound, la sola riformulazione dell’uomo che permette di restituirgli (come a tutto ciò che lo circonda) il suo dinamismo. È così che devono essere interpretati quei bei versi che concludono la sua Lettera per Melville 1951: «[…] la questione non si riduce / né all’arpione né alla penna che è / incisa sulla tomba di quest’uomo esemplare / – su noi – / ma che dove si incrociano è il movimento, / dove in movimento continuo si incrociano ancora, e / aprono questo nuovo istante».
Ci piacerebbe, certamente, citare altri estratti di un interesse capitale concernente questa questione del nostro rapporto al mondo. Sviluppare meglio le ragioni per cui il modello messo a punto da scrittori come Melville, Rimbaud, Olson, Ponge, e altri ancora, si è rivelato essere «più efficace» di quello fondato sul taglio, la mancanza, il fallimento, che è quello che tenta di proporre Christian Prigent. Perché: «Vedete, ci dice Olson, il problema è di sbarazzarci di tutti le negatività».[4]
Non svilupperemo neanche il concetto di singolarità, fondamentale in Olson, che spiegherebbe perché ogni cominciamento è, in definitiva, plurale; preferiamo lasciargli rendere omaggio ancora una volta a Melville (ai nostri lettori il compito di approfondire): «Osservare Melville lungo tutta una vita che si sforza di far fare alla prosa quel che raccoglie il suo corpo e la sua anima, e il suo spirito avviluppato sopra (un modo come un altro di esprimere la physiquéité di un uomo), sforzandosi di trovare la misura di un linguaggio capace di trasportarlo in un libro e da lì fino all’esperienza di un altro è un lavoro che al momento, in pieno nell’arte del XX secolo, pittura, musica, racconto o poesia, si giustifica più di quanto non poteva essere il caso precedentemente».
[Traduzione di Alfredo Riponi]
[1] Charles Olson, Commencements, Théâtre Typographique, 2000.
[2] Siamo noi che sottolineiamo. In realtà Olson fa risalire questo nuovo approccio del reale al Natale del 1817 quando John Keats rientrando a casa si disse: «È meglio, così come faccio, non abbandonare la condizione delle cose». E Olson aggiunge: «Keats, senza volerlo, aveva appena ficcato nel secolo la punta metallica capace di demolire Hegel, se mai qualcosa ha potuto farlo». Si può anche notare che questo “partito preso delle cose” ricorda il lavoro di Ponge (Ponge è il vero contemporaneo di Olson). Ecco, ci ricorda Olson, ciò che Melville scrive a Hawthorne nel 1851: «Per verità percettibile intendiamo l’apprensione della condizione assoluta delle cose presenti».
[3] Nel suo ultimo libro (Retour définitif et durable de l’être aimé), P.O.L, 2002, Olivier Cadiot riprende (p. 251 e seguenti) questo esempio per spiegare come funziona il suo dispositivo testuale: «in termini di meccanica quantistica, ciò vuole dire che, qualunque sia la distanza che li divide, il fatto di misurare le caratteristiche dell’uno permette subito di determinare quelle dell’altro».
[4] Anche Ponge proclama il rifiuto «di tutte le negatività». Perché accettarle vorrebbe dire creare delle gerarchie antropocentriche e dunque reinscrivere l’uomo al di sopra delle cose: «l’uomo misura e fine di ogni cosa». Rimproverando a Ponge la sua positività e «l’anti-umanesimo di Il partito preso delle cose» (p. 85 in Ceux qui merdRent, P.O.L, 1991), Prigent non esce della tradizione umanistica francese, perciò il suo riferimento costante e nostalgico a Rabelais la cui opera «era un umanesimo pensante, includendo la sovra-umanità (e-normità vorace dei Giganti) e l’inumanità (l’esorbitante esuberanza di una lingua non confinata all’effetto del reale, alla verosimiglianza psicologica, al dettato del gusto)» (ibid., p. 309). «sovra-umanità» da un lato, «inumanità» dall’altro, siamo lontani dall’umile riflessione di Keats citata in nota 2 che avrebbe rivoluzionato durevolmente la scrittura.