tre prose / silvia tripodi. 2013

Zaha Hadid, “Crater”

Astrazione

Lo faccio subito, è l’evidenza il punto, non lo faccio.
Mentre lo faccio, monossido di carbonio è l’evidenza, punto.
So che non devo farlo, essendo il punto l’evidenza non più al bianco, questo, né il punto è sul bianco
lo si può fare dunque: no. Non lo si può che pensare. E pensandolo, pure messo tra l’evidenza e l’intenzione,
il punto è una traccia d’aratro che lavora un cielo. Il cielo lavorato, le nuvole arate, essendo senza punto seppur evidenti allora si continua, in questa coazione a ripetere, che è affare dei cieli, non mio. Non si continua allora.
Si continua dunque, dal basso, da un basso monocromatico: si scelga la gradazione, quella della traccia. Se gli arti soffrono il freddo, si cerchi un riparo dall’evidenza.
Lo faccio lo farò, è evidente come un punto è il punto, non lo farò. Lo sto facendo.
Si stabilisca la natura di questo struggimento -quale?- si comprenda come questa fitta muscolare sia affar nostro, mio e del punto che sa di approssimarsi
per necessità, essendo il tempo un cielo arato, senza nuvole. La coazione non è finita e specie nei mesi invernali, si lavora lassù, assai, a gran forza masse e masse di bianco vengono spostate da un cardine all’altro senza punto al bianco dell’evidenza che.
Dovreste voi -i punti tutti- portarmi offerte, se volete che io vi salvi dall’evidenza dell’intenzione, se volete.
Per incalzare il cammino del bolo che durante la notte ha riposato nelle pieghe dell’intestino, compiendo
l’intenzione l’evidenza
punto.
Lo faccio adesso, tra una decina di minuti, ora, non lo sto facendo. Lo si faccia e
mentre lo faccio, lavorano di fuori, battono con il martello un ferro, costruiscono dei punti alla mia evidenza.
Nell’ora del martirio del pezzo a ferro e fuoco, perfettibile, come lo strascico di un sogno non trattenuto, questo
né il punto è sul bianco, lo si può considerare un cielo notturno lavorato, arato fino all’evidenza di una dissolvenza, al passo-uno dell’ingegno.
Si continua dunque, si cerchi un rifugio da questa santità miracolosa del bolo che fuoriesce dagli occhi, gli si domandi se per tutto il giorno dovrò muovermi con questa materia che cola dalle orbite, rigandomi il volto

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