complesso immobiliare plurifamiliare / marco simonelli. 2010

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Venivano ogni tanto. Visite improvvise. E questa è la terrazza. Fra noi e loro solo un gelsomino. Sicuramente era la spirale, tipo zampirone. Le zanzare: la sera da loro non ti salvi.

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Gli occhiali scuri. Sempre. La camicia. Bianca, aperta. Sul petto abbronzato la catena d’oro, un crocefisso a disagio prendeva il sole fra i suoi peli.

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Mi pareva una macchina sportiva. Si sente come un colpo, ogni tanto. Spumante. Alla salute. Non sapevo per cosa dovessero brindare. Tutti i giorni, tranne la domenica. Con i figli, alla messa delle dieci.

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Lui? Lui l’abbiamo visto. Solo qualche volta.

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Un fossato simile a un canale la circonda. Sono soprattutto carte di gelato. Algida. Lattine: sembrerebbe birra. Bottiglie. Di cui nessuna rotta. L’acqua? Stagnante. Col mare agitato, dicono, si smuovono le fogne.

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Era un bel ragazzo. Abbronzato, però capelli chiari. I pantaloni troppo corti, la canottiera troppo stretta. Le scarpe, quelle sì, di marca. Transennarono la zona. Erano in borghese. Si era affacciato al finestrino aperto e aveva detto ciao.

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Lo sanno tutti, aveva detto girandosi la fede all’anulare, è così da anni.

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Uscendo dalle recite all’aperto i pensionati e le mamme con bambino si lamentavano. Una volta, era con sua moglie. Era seduto sulla catena d’accesso alla pineta e lo fissava. Mi sembrò arrossisse.

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Sulla lettera anonima scherzava. La liquidava. Come una catena di Sant’Antonio. Come un depliant che dice: “Si svuotano cantine”. La mattina presto usciva a ritirare la posta in accappatoio.

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Non era una cassaforte ma un caveau. Era grande come la sua nursery. Riconobbe l’astrakan, la volpe e l’ermellino. Si ricordò di sua madre, capodanno, i fuochi artificiali. Gli aveva chiesto «Hai freddo?» e poi l’aveva avvolto nel visone.