schema / adriano padua. 2009

SCHEMA

(Parti del poema)

PARTI 1-4 (DEL VUOTO)

1. La verità, certamente concreta, non è ancora probabile. Ogni notte potremmo morire, scaturire da noi qualche cosa. L’economia è presenza, sembra un qualunque dio, non ha forme né schemi, sono cose irreali, è violenta. Non è vero che è tutto così fuori posto. Ora è come se il senso, nell’immobilità, sottraesse sé stesso alle immagini date, e  in queste vene gonfie, contaminate e piene, si complicasse il corpo. Ecco la parte zero del poema, ecco le  reazioni inesistenti. La gioia non può essere di piombo, il contesto attuale è il contrario del cielo svelato, e ci stringono intorno le insonnie.

2. Ignoti, sia noi che le fiamme, sia detto per stare anche fuori dal campo poesia. Nella parte iniziale del caso. Creatura insondabile taci lucente e terrena, sono consecutive le cose, quasi sempre, non solo. Il muro si schiera da primo confine. I nostri due futuri sono luoghi avvelenati. La senti la musica dei tasti, la magìa, gli obiettivi imprecisi ma posti ugualmente, la rabbia decorativa che intossica, i pensieri nuovamente come indosso, le mosse senza enfasi perfette delle ore, i gesti operati a comporre le notti sbranate dai gesti contrari, l’agire di linguaggi e piani, la pioggia interminabile. Forse quello che vedo, forse, non è vero.

3. Movimenti dei globi, sussulti, fasi nel susseguirsi. Le conseguenze non avranno luogo mai, questo è importante, né la rivoluzione né niente. Il teatro, la città dei palazzi sepolcri, è la parte del buio, brulicante di polvere e fame. Ha scolpito un messaggio, non è mio, non è chiaro, come un gioco si perde. Ogni segno è un silenzio, fenditure profonde si aprono, gli oggetti in attenzione quasi umana, e la luce che muore e rinasce, gradualmente. Si capisce, traspare, che appartiene al passato. Il pensiero tortura l’ambiente. Stai dormendo e percorri, lentamente una serie di numeri, nell’abisso degli occhi.

4. La vendetta, danzeremo in un mare uniforme, di materia parola, cattivi e persi insieme fuori e dentro. Ogni minuto stermina, regolarmente, branchi di dette ipotesi. Diamo alle cose nomi, questa ad esempio, chiamiamola la parte dell’attesa. La massa pulsa un odio sovrumano, ma è l’unica cosa che abbiamo, inutile, muta se vai escludendo il rumore di fondo. Non individuata, priva di espressione, attende i mutamenti. Adesso stiamo fermi, noi,  alimentando tutte le nevrosi. Intorno c’è un brillare intermittente, che s’adombra, e lo condividiamo con il tatto. Ciò nonostante resta, estrema dissonanza ed astrazione. Aspettala, non ora, la storia sai che muore. La fine esploderà in un mormorìo, multicolore.

PARTI 5-8 (DEL SEGNO)

5. La porta spalancata sui testimoni oculari, addetta a introdurre. Propositi tutt’altro che saldi, paure ai linguaggi, nelle nostre radici parole, in trascurabili immaginazioni, nelle quali s’accumulano i particolari, si moltiplicano, danno forma alla parte del senso,  è importante,  non seguire le tracce. Appartenere, mentre intorno s’incide la storia, non è un fatto assoluto commesso dai corpi sconnessi. Ciascuno sta, come un giocatore, un’insidia visibile, giustificando in qualche modo la sua partecipazione. Alle estremità l’animale e la strada, l’arredamento invece è dentro, ci circonda, con i giochi riusciti.

6. Questo caso è la nostra realtà e non attrae dall’esterno. I soffitti raccolgono fermi il silenzio, in balìa come noi, che percorriamo insieme tratti stretti, fortuite vicinanze, gridiamo messi in mezzo, guardando il meccanismo separato, e l’oro in superficie. Davanti alla diversità di ogni singolo, immobili, ci neghiamo la parte soggetto, parlando degli stati delle cose, siamo falsi. Circoscrivere delitti entro le chiuse, a versi convocati da un udire di misteri. All’indomani trarre l’arma e astenersi, nei passaggi di luce che sono progetti, sul presente e le sue variazioni, le scale. Questo finché ulteriore andare noi, che perlomeno si finisse altrove, in teoria negato, un attimo due volte, s’inoltra nell’interno, di ampiezze limitate, annega nelle fosse. Il dire è un replicarsi, in altro materiale.

7. Non si può indurre il tempo ad essere superfluo. Il metodo è la parte della lingua, del sangue artificiale, ricreato, in sedimentazione. Nel luogo in cui soltanto erano stati, e moriranno anche, in un vagare al margine, nel nero di una notte impressionabile, tremante. Significava casa. È come un’irruzione permanente, ed un continuo sbaglio ma da fermi. Potrebbero parlare, cambiare gravità. Ora varcano specchi, producono dei suoni, percepiscono. Si mostrano e analizzano questioni, credono ingenuamente di fuggire. Scandiscono momenti, automaticamente, nell’inconscio, e ancora non si muovono. Il mutamento intorno, privo di lineare progressione.

8. Io vorrei costruire la parte del nome, fatta d’acqua. Qui sono un segnale anche le pietre, sembriamo nella casa, crollata del silenzio. Consideri gli aspetti, rifletti, risuona unica e sola una parola vaga. E liberi frammenti dalla carta, fuori davvero fuori, fino a qualsiasi vuoto. Non esiste altro modo, che so, di chiamarti. Sei un’assenza precisa, sei sostanza ed effetto,  di un complesso di gesti. Quando esplodi cristallo, nello stesso frangente, reagisce lo spazio a contrarsi, e ci disintegriamo, senza oltre.

PARTI 9-12 (DEL SENTIRE)

9. Evitano ancora conseguenze, ma sono troppo chiare. Avesse mai un motivo, la notte, di terminare ora, sarebbe per enigma, o congettura. Il corpo si pronuncia nelle impronte, compromette. Abita la parte della morte, e l’immaginazione che deriva, la contiene. Ascoltano uragani, entrandovi in coesione, desiderando farlo, nel movimento suono. Non sono mai coincisi, e devono nascondersi. Ricavano dal vuoto le parole, negli incavi in cui stanno incastonate. Lo fanno con le mani.

10. Il vero poterlo non deve. Bastato inutilmente, è stato all’improvviso. Il ragionamento non è respirare, a cosa può servire, se scivola la stanza dalla casa. Praticamente a niente. E nonostante esista, la certa consuetudine, unire le parole è esperimento, proviene dalla parte della bocca, ancora da più dentro. Ogni sconfitta un chiodo, un ricostituire, di lei, la conoscenza. Lottare, procedere all’assalto, avere l’espressione, aggiungere la sillaba. Sviarsi del percorso, opprimere le rime, seguire la frattura. Resta come inspiegabile ma resta, resiste tutta questa ostentazione. Le prospettive vanno ribaltate. In mezzo alle rovine. Non ho versi.

11. Da miglior via distanti, forti e fisici, forzato questo nulla, questo assolutamente incompatibile , buio con i tuoi occhi. Sono profondi e simili, c’è dentro l’indomani, ogni sua deviazione non in più. Il tempo non puoi scardinarlo, è una molla, da cui tutto scatta, si scatena. Contiamo l’ammontare della strage, la stanza è semiaperta, c’è il solito silenzio, è questa la sua parte. Tu strangoli parole a conclusione, in descrizioni semplici, svanisci ed è qualcosa di perfetto. Non posso fare niente, sono io.

12. Guardavano sparirsi, dalla stessa finestra, e l’animale parla, non ragiona. Ovunque è la parte del suono, si chiudono sportelli, e vibrano i congegni. Essere e non vivere, con le aperture ermetiche dei pazzi, disorientando la conversazione, e l’ordine perfetto. L’aria deve ricevere ferite, noi perdere abitudine. Ancora, girano serrature, nell’eco si sofistica la notte, i modi sono tanti, della ripetizione. Qualcosa ci percorre, siamo strade.

PARTI 13-16  (ULTIME)

13. Nella parte del fuoco ovviamente bruciare, insensibili, non c’è più posizione, struttura. Dosare la solitudine e i suoi apporti, la tua assenza cantata di parole dischiuse, di urla, mentre informi si assembrano ombre. Voglio aprire i minuti seguenti, fare un taglio profondo, senza alcun risultato, movente, e sognare tragedie perfette, dove anche ti odio, riempite di sbagli, conclusioni di sangue. L’analisi è che diventa tutto uguale, che prima o poi si spegne, la cenere si mescola alla polvere.

14. Sono stanco ma sto ancora qui,  nella parte del potere, a vedere. Resti ferma, nuovamente, parli a mente, muovi solo le mani, e le cose ci interrogano, mantenendosi in esposizione. Non possiamo dormire, li dobbiamo schivare i proiettili, o disincagliarci dal corpo, ma comunque proteggerci. Le parole sui tetti, pavimenti che oscillano, tutto torna se stesso, al suo posto incantato. Fammi uscire, con lo sguardo, dalla porta degli occhi.

15. Camminato è l’abisso dicendolo a stento, lentamente, poche le affermazioni e minime le tracce. Questo non è un romanzo, vi è emessa narrazione senza ampiezza, trarre certezze intanto è più difficile, il nocciolo non è individuabile. Ripetiamo la storia, con un tono invisibile, districando gli incastri, ci chiamiamo in un nome soltanto, sono regole nuove. Attori nella parte della resa, non ancora conclusi, siamo noi e le frasi.

16. La fantasia impallidisce, esausta, i geroglifici, incisi, fanno rumori inconsueti. Non è tutto semplice, direi. Le cause, ignorate e invariabili, sono emerse oramai. La chiave di lettura, nel punto di rottura. I corpi stanno, a ricevere luce. Si concentrano le coincidenze, inviolato l’oblio, le distanze. Non in noi, un tornare continuo di lettere, senza annunzi, e di punti. I colori svuotati, siamo estranei in un modo che è simile, e la parte finale è nel bianco, non qui.

(Inedito. Immagine: Luke Fowler.)