dell’opera disfatta / marco giovenale. 2005

[ righe, ingenue e iniziali, contro serialità e romanzo-tipo ]

“due computer si incontrano e si sprogrammano”

Carmelo Bene

1.

lettura e scrittura lineari costituiscono un problema che lo sguardo del XX(I) secolo non avverte sempre come problema.

è anzi vero l’opposto. la percezione del problema è occasionale, è indesiderata.

ora, nel tempo ben consolidato in cui la realtà si sottrae alle retoriche solo lineari e teleologiche, queste organizzano difese puerili, dunque vincenti.

sono ‘naturalissime’, coincidono con il perdurare di trama e intreccio e scioglimento, spettacolo poematico, scrittura ‘rappresentazionale’ (realismi, iperrealismi, feuilleton), e insomma con tutte quelle forme morte che – proprio in quanto tali – hanno gioco facile in una società alacremente cimiteriale.

il romanzo-tipo è la forma predatrice per eccellenza. nel confine della letteratura, anche se non ovunque nella comunicazione, la forma romanzo che diciamo classica (se esiste) e ‘il romanzesco’ (che esiste) scalzano o divorano le forme ritenute minori – la fiaba l’aneddoto il mito le prose non narrative e forse in generale la stessa poesia, anche se narrativa.

(in realtà: il minore è tale perché ucciso: non era minore per statuto: lo diventa in séguito alla prassi dell’avversario, se questo vince).

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2.

negli anni tra XX e XXI secolo si ‘impoveriscono’ quegli strati medi e medio-bassi della borghesia per i quali e dai quali il romanzo nella sua forma canonica e colonizzante era nato.

i segmenti più sottomessi di questi strati, insieme a tutti coloro che aspirano alla sottomissione e sono in coda per farsi assumere o sussumere da questa, continuano a leggere e scrivere e volere romanzi modello (modellini fine Ottocento, in particolare). (l’antiromanzo quasi non ha figli).

i romanzi nella loro forma ‘classica’ offrono un paradigma di conoscenza e di organizzazione delle percezioni ancora formidabile, coesivo, che funziona: non più per descrivere uno status economico-sociale (e immaginario, e di immaginario) in sfacelo comunque, quanto piuttosto per ridesiderarlo; o – come in un colossale rewind – per rivederlo desiderato. (integro o meno). (a dettare legge è il desiderio, non il suo oggetto).

il romanzo, il perdurare anzi lo stravincere della forma-romanzo tipica/triviale, significa e codifica non solo il banale dominio della merce, ma la nostalgia verso un momento della storia in cui la merce fingeva di lasciare al customer uno spazio di decisione, con sue forme di ‘soggettività’.

il lettore-cliente, dalla modernità alla fase aurorale del postmoderno, poteva scegliere le ombre in vetrina, identificarsi, comporre (=farsi dare precomposta) la scacchiera. così il narratore.

tuttora. il romanzo (si) vende, le altre forme no. le prede, le forme di vita (rese) deboli scompaiono o hanno corso gramo, minacciato.

°

3.

praticando e pensando una scrittura non meramente contraria ma in genere proprio estranea al romanzo, va tolto dal campo ogni elemento cosiddetto militante. si può ammettere senza troppo azzardo che quasi tutte le milizie portano scorie di fascismo. vanno abolite in partenza per evitare equivoci.

né può essere nutrita gratis la favola riformista nota come “Se Intervengo Sul Linguaggio Alla Lunga Intervengo Sulla Società”.

il nastro temporale non si può vedere dall’alto e insieme da dentro. stare nel gioco letterario-poetico, o ampiamente culturale, vuol dire ignorare largamente i vettori di gran parte delle forze in atto.

(che non significa ignorare il visibile. al contrario. significa rifiutarsi di nominare l’invisibile prima che perda invisibilità). (chi non ha empirismo se lo procuri, o smetta di leggere e vada a comprare un romanzo, un romanzo tipo). (l’inesistente non può essere comprato, creato sì. mentre l’Esistente è comprabile: è, tipicamente, nei romanzi).

poi. agire in letteratura e agire in storiografia non possono fingere una complanarità, una condivisione del tempo e dei discorsi. si scrive e si storicizza necessariamente in/con tempi e strumenti differenti, separati anche da anni. per tentativi, approssimazioni, se onestamente.

accoppiare il rifiuto delle ‘poetiche normative’ al rifiuto del romanzo-tipo non vuol dire abbracciare la confusione del tempo storico. né però descriverlo.

diciamo che a monte di una prassi di scrittura che si dica non rappresentazionale, non lineare, non teleologica, sta ora (non negli anni Sessanta) …la prassi. ovvero la vita come materialmente è.

la disintegrazione completa e non reversibile né sanabile degli spazi e tempi di coscienza e storia individuali.

va detto: la realtà, già di suo, è una faccenda editante. pubblica (a) ogni passo. ci pubblica. difficile anche solo immaginare di scrivere in altro modo. e: di fatto si legge (si percepisce) in questo modo.

chi può permettersi una trama? chi – nel contesto storico degli ultimi cinquant’anni – ha vissuto o vive una trama e un intreccio? l’automobilina va da A a B a C? e poi torna perfino indietro? gioco pieno di emozioni, di verità, senza dubbio. ha suspense, si vede.

il corpo carta è editato e venduto in tutt’altra maniera. l’abolizione della vita (del lavoro, dell’affetto), la tortura, lo sfruttamento reso desiderio e oggetto, sono il mare amoroso del n(u)oto dato.

qualcuno può dire onestamente di non essere frazionato in un ininventariabile numero di parti, tutte a loro volta separate ancora? (fino alla sparizione dei linguaggi che da quel frazionamento si originerebbero, se questo producesse respiro).

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4.

se il Novecento non è un colossale abbaglio (e non lo è), non solo l’individuo a vapore di fine Ottocento si è disintegrato, ma tutti i giorni se ne dimostra matematicamente la in(de)finita divisibilità ulteriore.

ogni restaurazione non è fittizia perché ‘capitalistica’ o solo ‘spettacolare’, ma perché falsa. integralmente falsa nello spettro intero della realtà.

né è interessante perdere tempo a capire perché un congruo e maggoritario numero di notabili piccoloborghesi o sottoqualcos’altro leggano e scrivano feuilletons. a un certo punto diventa una questione di energie. uno non se la sente più di star lì a capire fino in fondo perché trentamila persone saltano e cantano all’unisono in uno stadio vuoto. problemi loro, prassi loro.

ci sono altri momenti della vita; ossia: c’è tutta la vita, che rimane fuori da questo stadio, e che ha gemmazioni=interruzioni che per coalescenze occasionali fanno testo. ma: possibilità di testo leso dal principio, e leso proprio in quanto possibilità. compiuto esattamente in quanto incompiuto, incompleto e non completabile. e: non è un testo, è la scrittura di scena dei fatti.

quella vita e questo linguaggio sono interessanti – e parlano.

le distruzioni quotidiane delle persone sono parlanti, sono il pensiero del fuori, l’esterno della voce, l’interruzione della voce; non hanno trama, intreccio, linea. ammassano intenzioni e pezzi di storia per disfarsene. (ma già: Burroughs, Artaud, Beckett, Deleuze, Foucault, Bene: tutti micromutismi per sordi? tutte verifiche, vanificazioni, s/definizioni).

la frantumazione del vedere, del campo ottico, e dei tempi rimasti alla mente per smistarne particole, fanno=disfano la scrittura. la realtà reale scrive la pagina, il lato inferiore, lo strappo verso il basso.

(la realtà del sequestro quotidiano nelle merci, nello spettacolo; l’incendio di ogni cosa all’interno del lavoro, puramente alimentare). (e di pessima alimentazione).

se nella seconda metà del Novecento solo una piccolissima frangia entro una piccola frangia di scrittori presentiva e cifrava quello che si stava verificando (e che ora incrudelisce) nelle percezioni e nelle società non solo d’occidente; se dunque solo una parte della letteratura affrontava e formalizzava e deformava quanto accadeva o stava per accadere; a XXI secolo iniziato è incomprensibile e forse immorale che non sia la maggioranza degli scrittori a vedere quello che è sotto e anzi dentro gli occhi di tutti.

chi non vive l’agganciarsi e il fondersi in blocco unico dei tempi e corpi del lavoro? esiste qualcuno che abbia da qualche parte una trama che lo rassicura, che lo completa, capace di tirarlo fuori dal confronto (anche consolatorio, non solo critico) con le forme sempre daccapo vulnerabili della dissipazione del discorso, con i dialoghi interdetti e saltati, con la linea caduta? (il telefono, la narrazione, la discussione politica, l’argomentare per strati inconclusi).

i realismi sono falsificazione, non la realtà. ogni linguaggio della indefinita frantumazione e della morte dice il dicibile dei fatti. (dice un dicibile, sì: ma proprio quello che non è amato).

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5.

tutto ciò che qui si va scrivendo o iterando non ha plausibilità (e attuazione in scrittura) per ragioni di poetica predefinita, ma semmai perché a comporre pagine sono la realtà da un lato, e dall’altro (ossia dallo stesso) la coscienza della realtà fattuale materiale/attraversata.

una ‘crisi del soggetto’ (con relativa immancabile e variabile tecnica di recupero, respirazione artificiale) la vive solo chi individua ancora in sé e negli altri pietre incise, soggetti carducciani, trash dell’iperdefinizione.

al contrario. si deve dire che l’osservazione della realtà è organizzata da/in parti inconcluse della stessa, che osservano altre parti della stessa. (in minaccia reciproca).

chi scrive è quel “chi” dubitabilissimo e intermittente che – attraversato da una catena di disastri – è lui per primo già sovrascritto e interrotto dalle cose.

[per un periodo ho pensato alla sceneggiatura di un film che durante tutto il primo tempo presenta atti mancati, scivolamenti, deviazioni, imprevisti, l’incepparsi di una giornata, disguidi, contrattempi, noie, cadute, mancamenti, fraintendimenti, malintesi che portano avanti però comunque vita e nonstoria, contro pezzi di rewind, fino a un secondo tempo fatto solo di pochi secondi di inquadrature frazionate casuali, poi stop. fine del film. in sostanza però non ho scritto questa sceneggiatura, ne parlo solo tra parentesi quadre: anche qui mi interrompo]

nessuno obbliga nessuno a fare (come faccio) un discorso antiromanzesco, avverso alle logiche lineari e desideroso almeno di osservare il disastro. queste stesse annotazioni sono – si vede – affette da linearità.

ma intendiamoci. se chi sceneggia fitti e torniti fogliettoni sa di nutrire teatro, coniare moneta falsa, e agisce così per raggranellare soldi, ha piena comprensione. se lo fa perché pensa di emettere letteratura, produca la sua letteratura. è opportuno che chi si occupa di scrittura di ricerca arrivi a una deviazione, si muova fuori [da questa] strada. (per regola: fuori dagli stadi).

chi non ha o pensa di non avere diretta familiarità con la distruzione quotidiana, ha probabilmente tempo e soldi per tarare bei flussi poematici e romanzi per i distrutti. i quali acquistano volentieri il prodotto.

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5 [alter].

“l’opera è incompleta” – è disfatta

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febbraio – giugno 2005