arrivare dopo, arrivare differenti: una notilla su “poesia” e “postpoesia” / marco giovenale. 2021

Riformulazione – forse non del tutto campata in aria – di un’idea fenomenologicamente fondata di POSTpoesia, partendo dai frisbees di Giulia Niccolai, per fare un esempio (che però non è l’unico pensabile)

 

Un cenno ai frisbees, di Giulia Niccolai, è anche nel microsaggio che tempo addietro avevo dedicato a Carlo Bordini: nel n. 76 del “verri” (giugno 2021). In quella sede ma anche altrove cercavo – e tutt’ora cerco — di spostare la riflessione nella direzione di quanto Jean-Marie Gleize dice qui:

Nioques n’est pas une revue de poésie, comme son titre l’indique. C’est une revue de poésie après la poésie. Ce titre est  l’un des mots que Francis Ponge utilisait pour désigner ces textes qu’il écrivait en dehors de toute intention esthétique, et de toute espèce de préoccupation poétique ; On  rappelle ici ce qu’il écrivait dans Méthodes en 1948 : « Le jour où l’on voudra bien admettre comme sincère et vraie la déclaration que je fais à tout bout de champ que je ne me veux pas poète, que j’utilise le magma poétique mais pour m’en débarrasser (…) on me fera plaisir, on s’épargnera bien des discussions oiseuses à mon sujet, etc. »

https://slowforward.net/2021/06/22/una-nota-di-jean-marie-gleize-a-margine-di-una-recente-lettura-al-cipm/

 

Quando si parla di postpoésie – ossia quando ci si allontana dall’augusta e insieme angusta etichetta “poesia” – ci si può, prima ancora, porre all’esterno del rigido circo dei generi letterari; risulta così del tutto legittimo parlare di qualcosa che implica e assume non soltanto altri abiti, forme, inflessioni, dimensioni, profili, ma infine identità: altri nomi. E idiomi impliciti, esistenti. (Si può e forse si deve dire che la dimensione idiomatica qui sopravanza tutte le altre: e/ma è virale).

Quali sono questi altri nomi? Questi oggetti verbali non identificati?

(Non dico “nuovi”, dico “altri”, diversi, differenti). (Anche se in Italia tutto sembra voler manifestarsi come “nuovo”, perché perfino la DC ha fatto in tempo a morire ma le forme dell’assertività letteraria ancora reggono).

Ecco (citando sparsamente/disordinatamente):

epiphanies (James Joyce 1900-1904), tender buttons (Gertrude Stein 1914), tropismes (Nathalie Sarraute 1939), notes (Marcel Duchamp, pubbl. post. 1980), nioque(s) (Francis Ponge 1983, Jean-Marie Gleize), frisbees (Giulia Niccolai, appunto, 1984), proêmes (Ponge), textes pour rien (Samuel Beckett), antéfixes o dépôts de savoir & de technique (Denis Roche), descrizioni in atto (Roberto Roversi), verbotetture (Arrigo Lora Totino 1966), bricolages (Renato Pedio), domande a risposta multipla (John Ashbery; e cfr. Alejandro Zambra, nel nostro secolo), mobiles o boomerangs (Michel Butor), visas (Vittorio Reta), postkarten (Edoardo Sanguineti 1978), sentences (Robert Grenier 1978), subtotals (Gregory Burnham), films (Corrado Costa; e forse anche posizioni), e ancora: schizografie (Gian Paolo Roffi), drafts (Rachel Blau DuPlessis), esercizi ed epigrammi (Elio Pagliarani), anachronismes (Christophe Tarkos), remarques (Nathalie Quintane), ricognizioni (Riccardo Cavallo), anatre di ghiaccio (Mariano Bàino), lettere nere (Andrea Raos), linee (Florinda Fusco), ossidiane e endoglosse e microtensori e statue linee e “installances” (Marco Giovenale 2001, 2004, 2010, 2022, 2010), tracce (Gherardo Bortolotti 2005), prati (Andrea Inglese), diphasic rumors (Jon Leon 2008), united automations (Roberto Cavallera 2012), paragrafi e istruzioni (Michele Zaffarano 2014, 2021), incidents (Luc Bénazet 2018), sentences (Cia Rinne 2019), defixiones (Daniele Poletti),  avventure minime (Alessandro Broggi), développements (Jérôme Game),  conglomerati (Andrea Zanzotto), saturazioni (Simona Menicocci 2012), nughette (Leonardo Canella 2013), cose (Fabio Lapiana), sinapsi (Marilina Ciaco), dottrine (Pasquale Polidori), disordini (Fiammetta Cirilli), spostamenti (Carlo Sperduti), spore (Antonio F. Perozzi). E aggiungerei le frecce di Milli Graffi.

Senza contare le infinite modalità (perlopiù elencative) messe su pagina da Perec (le cartoline e le passeggiate raccolte nell’Infra-ordinaire, o le stringhe di Je me souviens).

Durante una conversazione, tempo fa Luigi Magno suggeriva di pensare alle stesse cancellature di Isgrò come a dispositivi di questo tipo, oltretutto in forma di ponte fra la scrittura e l’arte. Per tacere, in tal senso, delle innumerevoli soluzioni disseminate nel tempo da Emilio Villa: “cause”, “variazioni”, “madrigali”, “attributi”, “phrenodiae”, “méditations courtes”, “videogrammi”, “letanie”, “sibille”, “trous”, “labirinti”, “tarocchi”, … (tutte forme disperse come, già nel 1949, i “sassi nel Tevere”).

Vogliamo continuare a estendere all’infinito il contenitore generico / generale / generalista che chiamiamo “poesia”, nonostante tutti i nomi altri che la scrittura si è data, o finalmente accettare l’iridescenza di forme che ormai da più di un secolo ci si presenta?

Un po’ come per l’iridescenza dei generi, ho idea che si debba iniziare a rifletterci seriamente.
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il testo riprende, amplia/varia e in parte

trasforma un intervento comparso tre anni fa qui

 

text on the fluxus / ben vautier. 1997

Today there is great interest but also great confusion as to the Fluxus movement;

There are those who keep theorizing about Fluxus.
They say that after Dadaism and Duchamp, Fluxus is “the most radical movement”;

those who make a fetish of Fluxus. They collect the trouser buttons by Maciunas, the handkerchief by Beuys or the dirty bath water by Ben;

those who speculate with the Fluxus. “If van Gogh’s ear is worth 100.000 million dollar and the bottle rack by Duchamp is worth 300.000 dollar, how much will the water glass by George Brecht then be worth on the fair in Basel in two year’s time?”

those who say that the Fluxus movement does only consist of spoiled children who make art by stating that they are against art, who expect to win fame by saying “we are against fame”, who want to get back into the Louvre by staying in the bistro vis-á-vis;

those who say, okay, Fluxus is something mad, but still it’s better than those who produce works of art for the consumer society;

those who say that Fluxus is rather a story of attitude towards life and art than towards products;

those who say Fluxus is individuals and not works of art;

those who say that Fluxus contradicts itself, that it consists of failures who happen to be succesful just now, anti-art stars;

As far as I am concerned, I think that
Fluxus is not a production of objects, of handicraft articles to be used as a decoration in the waiting rooms of dentists and professionals,
Fluxus is not professionalism
Fluxus is not the production of works of art,
Fluxus is not naked women,
Fluxus is not pop art,
Fluxus is not an intellectual avant-garde or light entertainment theatre,
Fluxus is not German expressionism,
Fluxus is not visual poetry for secretaries who are getting bored.

NO

Fluxus is the “event” according to George Brecht:
putting the flower vase on the piano.
Fluxus is the action of life/music: sending for a tango
expert in order to be able to dance on stage.
Fluxus is the creation of a relationship between life and art,
Fluxus is gag, pleasure and shock,
Fluxus is an attitude towards art, towards the non-art of anti-art, towards the negation of one’s ego,
Fluxus is the major part of the education as to John Cage, Dadaism and Zen,
Fluxus is light and has a sense of humor.

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This was published in the 1997 Fluxus Subjectiv catalogue
see http://id3419.securedata.net/artnotart/fluxus/bvautier-textonthefluxus.html

intervento alla presentazione di j.-m. gleize, “qualche uscita” (tictalk, 31 gen. 2022) / florent coste. 2022

Florent Coste
Intervento alla presentazione di Jean-Marie Gleize, Qualche uscita.
Postpoesia e dintorni
(Tic Edizioni, 2021)
TicTalk, 31 gennaio 2022
youtu.be/gyy_kz3Y6YU

Grazie a tutti per questo invito e questa bellissima serata postpoetica.

Mi sembra che oggi si presenti l’occasione per dire, o per ribadire, quanto sia importante un libro come Sorties, pubblicato in Francia dalla casa editrice Questions théoriques, e che la traduzione italiana Qualche uscita gli offre in modo tempestivo un nuovo spazio di circolazione.

Se posso permettermi di fare qualche concessione al giudizio estetico, questa è anche un’occasione per apprezzare pubblicamente la bellezza e la qualità di questa collana.

Riflettendo su ciò che Sorties ha rappresentato al momento della sua prima uscita, mi sono detto che varrebbe probabilmente e assolutamente la pena di considerare questo libro (e la sua traduzione) come una potente risorsa strategica, una risorsa che ci permette di raccogliere tutta una serie di armi utili a essere impiegate all’interno di un contesto specifico come quello del campo poetico francese, travagliato e attraversato da tensioni e lotte sue peculiari, ma la cui forza può senza alcun dubbio essere trasferita al campo e alla situazione dell’Italia. Continue reading “intervento alla presentazione di j.-m. gleize, “qualche uscita” (tictalk, 31 gen. 2022) / florent coste. 2022″

una citazione dal (non così) lontano 1992 / nicholas zurbrugg

Nicholas Zurbrugg, Ripensare l’avanguardia, in “Baldus”, a. III, n. 2, agosto 1992, p. 41

e inoltre: https://gammm.org/2012/12/20/vuol-dire-quello-che-vedete-effettivamente-william-burroughs/

e https://gammm.org/2011/04/21/da-una-lettera-a-allen-ginsberg-w-s-burroughs-1960/

e https://gammm.org/2011/06/04/towers-open-fire-william-burroughs-1963/

e https://gammm.org/2006/11/02/burroughs-talking/

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quattro categorie più una: "loose writing" / marco giovenale. 2011

 

Come esistono spostamenti del continente “testo narrativo”, quando accade che blocchi interi di romanzi, o famiglie di autori, che nel tempo e con lo smarginarsi o vicendevole divorarsi delle teorie fanno massa coesa o si disintegrano e – in una ideale deriva dei continenti alfabetici – assumono una diversa configurazione in quello che pensiamo essere un buon rilievo cartografico delle scritture, così si può dire che le teorie stesse, scogliere intere di definizioni, rupi di criticism, possono compattarsi, franare, emergere, collidere (non nella realtà-realtà, fortuna vuole; sì nella più concreta realtà dei segni che ci costruiamo, a proposito della realtà-realtà).

A questo proposito – con io meno critico che autoriale – vorrei suggerire (o dire che vedo, vedrei, penso di vedere) proprio un conflittuale compattamento.

In questi tempi vedo, osservo – e suggerisco – il darsi di una imperfetta ma forse non infelice unione tra categorie o schegge di generi che, considerate poi singolarmente, possono anche non aver ricevuto di fatto una organizzazione e definizione condivisa, ed essere al limite in movimento, addirittura “all’avanguardia”, o perfino di là da venire, in sostanza inespresse. E tuttavia, ancora non espresse e allineate dai critici in elenco, unirsi. Si uniscono. O possono esser passibili di presentazione di gruppo.

Allora ne assommo / accorpo / unisco – o vedo unite – cinque, ora:

 

new sentence (Silliman)

prosa in prosa (Gleize)

googlism, flarf (Mohammad)

scrittura concettuale (Goldsmith)

loose writing

 

Non metto parentesi dopo la quinta “categoria”; è ancora in larga parte sfocata e ne sono non autore ma  segnalatore. Non vorrei debordare in imprecisione.

Ron Silliman parla di new sentence a proposito (sintetizzo) di una frase che si innesta volentieri in una sintassi e macroarticolazione o sequenza di frasi che in qualche modo rimandano a concatenazioni tipiche del sillogismo, a segmenti relati, legati (o che esibiscono legami, o che implicitamente chiedono al lettore di vederli, di sentirli stabiliti), proprio nel momento in cui la normale, razionale, dimostrata-dimostrabile descrittibilità e consequenzialità è (giusto grazie a quelle stesse frasi) fatta saltare, gettata in crisi. Continue reading “quattro categorie più una: "loose writing" / marco giovenale. 2011”

conversazione fuori contesto / antonio loreto, massimiliano manganelli. 2014

Nelle giornate del secondo convegno Ex.it (ormai più di un anno fa), insieme agli autori ascrivibili all’attuale panorama della scrittura di ricerca (che comprende anche fotografi, videomaker, musicisti), sono intervenuti alcuni critici per un confronto sui problemi che quel panorama solleva. Noi che allora avevamo il compito di coordinare la discussione, cerchiamo qui di sviluppare qualcuno degli spunti emersi, affidando il resto del dibattito alla ricostruzione che la lettura dei singoli saggi del presente volume potrà suggerire. Tra gli argomenti affrontati, non riuscimmo ad aggirare la questione del soggetto, antico problema della poesia sperimentale, tanto antico da essere accolto da qualche convenuto con alzata d’occhi e aperte proteste. L’insofferenza non sembrava ingiustificata: una certa saturazione, una stanchezza del discorso – che ha le sue radici nell’aspirazione di Mallarmé a far parlare, in una poesia, il Linguaggio; nelle relative riflessioni di Valéry; nel rifiuto o nelle pretese di riduzione oggettivista, neoavanguardista, languagista – la si poteva effettivamente ammettere. E tuttavia, come segnalano alcuni passaggi dei contributi che si leggeranno, rimaneva un discorso da fare.

 

AL

Qui si potrebbe provare semplicemente a cambiare prospettiva. Per parte mia vorrei tentare di farmi soccorrere dalla psicanalisi lacaniana (del resto evocata in modo più o meno determinante in interventi come quelli di Giancarlo Alfano e di Gian Luca Picconi), cominciando a sdoppiare il soggetto in je e moi. (Valéry vedeva nei suoi Cahiers che «ci sono due persone in Io» correlativamente all’idea che «noi riceviamo il nostro Io conoscibile e riconoscibile dalla bocca altrui».)

Reimpostare la riflessione appoggiandosi a due istanze distinte può servire a ragionare del vecchio cruccio della riduzione/abolizione del soggetto senza svuotarne del tutto la casella, cosa che la scrittura, l’enunciazione (la produzione o riproduzione di enunciati) sembrano mal sopportare. Un discorso acefalo, totalmente acefalo, non può esistere. E a volte invece lo si è creduto, per esempio nella pratica di una mimesis della visione (l’école du regard, il primo Antonio Porta), sfidando l’idea cartesiana secondo cui la visione si lega a un soggetto di pensiero, e sfidando l’osservazione valériana di un fatto semplice: «prima ancora di significare una qualsiasi cosa ogni emissione di linguaggio segnala che qualcuno parla».

Sfide perdute in partenza, che consigliano un pacifico ritorno a Cartesio – ne parla Fabio Zinelli (pp. 99-103) per alcuni autori extra-ex.it e per Andrea Inglese, il quale però se vi ritorna è per dirgli addio, per farla finita con l’ego, ridotto a pezzo tra gli altri («pezzo principe» del soggetto, mentre sul patriziato si alzano le lame delle ghigliottine) – a meno che non si prenda la direzione prevalente di Ex.it – cui Inglese si conferma allora organico – che appunto prevede una obliqua ma riconoscibile andata a Lacan: la distinzione tra je e moi, con la messa in crisi di quest’ultimo (e in proposito si potrà citare l’Alessandro Broggi di Protocolli: «l’ego è una finzione, non c’è un “me”, si tratta soltanto di una tecnica discorsiva»).

 

MM

Per quanto mi riguarda (e nonostante la psicoanalisi mi sia assai cara), sarebbe opportuno, per una volta, se non uscirne completamente, almeno allontanarsi dalla dimensione strettamente psicologica dentro la quale sembra essere rinchiuso il discorso sul soggetto (colpa del Novecento, potremmo dire). Tutto sommato quello che si sottopone a (giusta) critica è il soggetto lirico (è un aggettivo che dovremmo sempre aggiungere, per comprenderci meglio), che viene più o meno a coincidere con l’io che parla e prende posizione rispetto al mondo, che, in buona sostanza, riduce il mondo alla propria esperienza privata. In questo modo ci si dimentica per lo meno la dimensione linguistica del soggetto e, soprattutto, quella antropologica. In occasione del dibattito di Albinea 2014 mi è capitato di lanciare l’ipotesi (neanche troppo estemporanea) di sostituire al termine soggetto – quale problema e bersaglio critico – quello di identità, sulla suggestione di un interessante saggio di Francesco Remotti intitolato, appunto, Contro l’identità. A distanza di un anno mi pare che tale categoria riesca più comprensiva di quella di soggetto, dal momento che implica anche risonanze collettive (il soggetto noi, il soggetto comunità) piuttosto considerevoli.

 

AL

La prospettiva che tu indichi attraverso il concetto identitario – già richiamato a vario titolo da Renata Morresi a proposito di Charles Bernstein e di Rachel Blau DuPlessis (pp. 63 e 68), e più di passaggio da Gian Luca Picconi (p. 86) e Fabio Zinelli (pp. 94 e 96) – mi pare si sovrapponga felicemente a quella che tentavo di proporre. Il moi è oggetto che consiste in un aggregato di identificazioni, a partire da quella che per il bambino prende forma di fronte allo specchio (stade du miroir), che realizza un’unità ideale e immaginaria, e alienata, dal corps morcelé, dal corpo-in-frammenti. Lavorare a un’abolizione nell’ambito del soggetto risulta dunque possibile col fatto di lasciare comunque operativa un’istanza, che, peraltro, sottrae al lettore il suo, di specchio. Si tratta di superare un’idea narcisistica della realtà, la presunta validità (nonché l’interesse) di una visione del mondo 1:(X-1), dove 1 è l’individuale che fa valere la sua illusoria, immaginaria identità nei confronti del mondo visto come (X-1), come altro da sé, quando è invece chiaro che il mondo quell’1 lo include.

Il fatto è che il rapporto tra je e moi costituisce un modello fondamentale per la relazione tra il soggetto e il mondo (anche questo lo aveva intravisto Valéry): e dunque, se si vuole smetterla con il lirismo (almeno con un tipo di lirismo), l’abolizione del polo ideale, della proiezione immaginaria del moi è un passaggio decisivo. Continue reading “conversazione fuori contesto / antonio loreto, massimiliano manganelli. 2014”

zu der blühenden allmaterie (abbozzo) / gustav sjöberg. 2017

 

according to a classic aesthetic model, the artist forms an already existent matter, turns nature into art, gives matter form. the paradigmatic example in this context would be sculpture, but poetry too is ultimately understood in similar terms. for what, as it were, distinguishes a poem from a non-poem, poetry from that which is not poetry? as various historically conditioned attempts to provide poetry with an essential determination little by little have proved to be untenable, the one thing remaining is an implicit notion of human agency, the very idea that the poet in one sense or another organizes the non-poetic matter and turns it into poetry.

which particular methodological premises that are underpinning such an organization of matter is, in this particular light, of secondary importance. what it comes down to is, above all, the fundamental aristotelian distinction between form and matter, and its still strong influence on concepts such as ”art” and ”poetry”.

bearing this in mind, it becomes one of the most crucial tasks for contemporary writing to subvert or dissolve the distinction between that which is produced by man and that which is produced by nature, or between the ”universal artist” (universalis artifex) and the ”universal matter” (universalis materia), to use the terminology of florentine neoplatonist 15th century philosopher marsilio ficino.[1]

for this to be possible, another understanding of the relationship between form and matter seems to be required. which? Continue reading “zu der blühenden allmaterie (abbozzo) / gustav sjöberg. 2017”

riambientarsi (ma anche difendersi) / marco giovenale. 2012

Marco Giovenale_ Riambientarsi ma anche difendersi [dato il “cambio di paradigma”] by marco giovenale / differx on Scribd

https://www.scribd.com/embeds/108100914/content?start_page=1&view_mode=scroll&access_key=key-i9g5b7g6bf70s8f4u52&show_recommendations=true

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see / download the pdf here = per vedere o scaricare il pdf:
https://gammm.org/wp-content/uploads/2017/04/Riambientarsi_MGiovenale.pdf

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cenni di poesia visiva femminile / giuseppe garrera. 2017

Per Mirella Bentivoglio il mito delle Parche, di Arianna e Aracne è inciso nell’inconscio della scrittura e del femminile: i ricami delle lenzuola, la tessitura o tramatura o ornato dei lini per le nascite e per i morti, i ricami e gli orditi per bare, culle, tovaglie, banchetti, nozze.

L’ossessione del tessere, del cucire, del filare, dei nodi, dei fili, delle trame, dei punti croce, di merletti e arabeschi intorno e tra la vita fino alle soglie del nulla costituisce l’apparato più profondo e inesplicabile, l’unico degno di esser preso in considerazione, della scrittura.

L’agoscrittura di Anna Paci; l’ipotesi di Giovanna Sandri di un’origine lunare dell’alfabeto, di un alfabeto segreto, precedente l’introduzione di quello fenicio, custodito da sacerdotesse, le cui lettere erano ramoscelli recisi da alberi diversi, profumati. Un alfabeto olfattivo, una scrittura profumata a seconda delle stagioni e dei mesi. Sono le Moire a recidere e allineare e comporre l’alfabeto arboreo: esse filano, tessono, ornano, e tagliano (ogni arabesco è motivo intorno alla morte, all’indugiare e procrastinare e ammazzare il tempo): la scrittura asemantica appartiene alle Moire in tutte le sue forme, che sia l’alfabeto braille, documento di una comunicazione chiusa e muta, di Annalisa Alloatti, o siano i dattilo-codice, ramificazioni di segni ed icona e pittogrammi, di Tomaso Binga, o le trascrizioni senza codice, pure scritture asemantiche legate al gesto rituale e incantatorio della mano, di Irma Blank, o i libri tessili fatti con una macchina da cucire ebbra e disubbidiente di Maria Lai, o l’espressione dei gesti davanti all’insignificanza delle parole di Ketty la Rocca, fino alle semantografie di Anna Oberto nella ricerca ossessiva di tracce di mani e nella nostalgia per scarabocchi e graffiti.

Per secoli le donne non hanno parlato. La donna socialmente muta, se non nel dialogo silenzioso dell’epistolario. Carla Lonzi in alcuni appunti interlineari, tracciati tra le righe stampate di un libro del compagno Consagra, scrive della necessità del diario, dei fogli e delle pieghe dei fogli dove nascondere le parole, il foglio come drappo, panneggio, stoffa, conchiglia in cui infilare, farcire (il corpo del linguaggio): la tendenza a trasformare il linguaggio in tessile o anche sedimento dei marosi del cuore.

Nel Barone rampante di Calvino, Corradina, la madre di Cosimo, chiusa nella sua stanza, passa le giornate a fare pizzi ricami e fili al tombolo e nel ricamo sfoga la sua passione guerresca e organizza in strategia il proprio furore. Emma Bovary addirittura mentre cuce si punge le dita in continuazione e sanguina. Nel ditale d’oro di Virginia Woolf la protagonista s’addormenta reclinando il capo sul ricamo, e dalla coperta, dalle pieghe della tovaglia che sta cucendo escono animali esotici, carovane e strade e via di fuga e di medicamento.

Nella tradizione femminile è frequente il ricorso alla mutilazione, alla mutilazione della comunicazione. Da qui la coreografia delle dita, il linguaggio dei muti (Ketty La Rocca), i gesti, i braillepoems dell’Alloatti, le lacerazioni della Landi, le desemantizzazioni della Binga, ma anche, benché dolentissime, le fonazioni afone, l’inarticolato, i  sibili i rantoli i mugugni i sospiri di Patrizia Vicinelli, la vicinanza con il piagnucolare e lamentarsi degli animali, in una disintegrazione del linguaggio come scrittura e lettura, verso il rimosso e i reami inconsolabili e labirintici del silenzio (e dunque l’ossessione del tessere, del cucire, del filare, dei nodi, dei fili, del tramare trame e orditi e favole e la leggenda). Continue reading “cenni di poesia visiva femminile / giuseppe garrera. 2017”

foglio volante / jean-marie gleize. 2016

 

Alla fine, in qualunque modo si vesta, la poesia si presenta sempre o finisce sempre per presentarsi come una superlingua, come una pratica sovradeterminata dalla sublimazione estetizzante, dal preziosismo formale (a volte truccata da minimalismo).

Dobbiamo quindi spostare, spostarci. Guardare agli impieghi contemporanei e ordinari della lingua. “Ordinario” era anche la parola d’ordine di Flaubert nella lettera a Louise Colet in cui parlava di una «prose très prose», cioè di una «prosa molto prosa». Per quello che riguarda me, io parlo di “prose en prose(s)”, di “prosa in prosa/prose”.

La prosa di cui parlo è in qualche modo anteriore, oppure posteriore, oppure ancora parallela, in ogni caso esterna alla distinzione tra prosa e verso.

Si tratta di mettere in discussione il verso, l’esaltazione del verso come ultimo rifugio utile a definire la poesia in quanto tale, radicalmente specifica e diversa.

Si tratta di mettere in discussione l’insieme dei vari prodotti derivati che operano all’interno della dicotomia verso-prosa: la “poesia in prosa” (il principale derivato, sommamente legittimato nella storia “moderna” della poesia), la “prosa in poesia” e la “prosa poetica” (ovvero una prosa poetizzata mediante musicalizzazione e inserzione di ingredienti ad alto tenore metaforico).

Quando suggerisco che è possibile pensare una “prosa in prosa/prose”, la prima cosa che si va a perdere è la nozione di “poesia”. La prosa di cui sto parlando implica la pratica di una scrittura dopo la poesia, implica cioè che si sia riusciti ad abbandonare l’oggetto “compiuto”, chiuso e ad alta definizione formale riconosciuto e feticizzato dalla nostra tradizione con il nome di “poesia”. Quindi: fine delle “raccolte”.

Quella che io chiamo “prosa in prosa/prose” implica, in effetti, l’“uscita” dal campo della poesia e suggerisce l’idea di una pratica letterale postpoetica se non addirittura postgenerica.

È chiaro che diventa allora necessario degenerizzare anche e nella stessa misura la prosa, scollandola dalla sua embricazione con il genere del romanzo (dato che, nel Villaggio, “prosa” significa comunemente prosa romanzesca).

Sappiamo tutti che “c’è prosa e prosa”. Questo può innanzitutto voler dire che esiste una prosa romanzesca (polimorfa, ovviamente) e una “prosa/prose” altra/altre, al plurale. Che è appunto ciò di cui sto parlando (ed ecco perché scrivo: “prosa in prosa/prose”).

Una pratica della scrittura come esposizione, come prosa posta e senza posa, esponente. Una “prosa-scatto” (Dominique Fourcade): «Dispongo le cose, metto le carte della vita in tavola senza commentare».

Qui è tutto da reinventare. La “prosa/prose” non esiste/esistono (ancora). È semplicemente il nome extra- o postgenerico che diamo alle nostre pratiche sperimentali (documentali, disposizionali…). All’esercizio di una responsabilità formale. Senza dubbio politica. Nioques

 

 [ traduzione di M. Zaffarano, già in «l’immaginazione»,
n. 294, lug.-ago. 2016, p. 28, rubrica gammmatica ]

la verità è che siamo tutti qui per essere visti. ognuno è geloso dell’altro / ben vautier. 1973

Die Wahrheit ist dass wir alle hier sind um gesehen zu werden. Jeden ist auf den andern eifersüchti

[Dal catalogo di «Documenta 5», Kassel, 1972]

La mia posizione attuale, dopo che Duchamp ha dichiarato che «tutto è arte», è che la ricerca artistica non ha più come luogo l’arte stessa – vale a dire che non si cerca più la forma estetica dell’arte ma s’interroga l’arte. Per questo mi interesso a quelle attitudini che si chiamano anti-arte, non-arte, la vita è arte, arte anonima, anche se penso che si tratti di attitudini ipocrite e impossibili nella sostanza – la loro riuscita effettiva infatti avrebbe come risulsultato la scomparsa della storia dell’arte o degli artisti in quanto partecipi di questa storia. Sono però tutti atteggiamenti post-Duchamp. Persino le correnti che postulano un ritorno alla «grande pittura» sono influenzate da Duchamp. Che si voglia o no, dopo Duchamp è impossibile tornare alla forma. È l’arte in se stessa che si pone come problema.

§

Una delle nozioni fondamentali dell’arte è quella del nuovo. Continue reading “la verità è che siamo tutti qui per essere visti. ognuno è geloso dell’altro / ben vautier. 1973”