da "partita" / antonio porta. 1967

 

che si trovano nel labirinto, ansimanti, che corrono in direzioni sempre sbagliate, che non sono arrivati a capire nemmeno i principi generali di una regola pur contraddetta, e dunque ridono oppure si disperano, colti da accessi di rabbia si avventano contro le siepi, cercano di svellere le radici, di sollevarle almeno in parte nel tentativo di aprirsi un varco nella trama fittissima dei rami sottili del bosso, nel tessuto delle piccole foglie dure e lucide, strappando pezzetti di rami neri e taglienti, vanamente districandoli, stretti come sono l’uno all’altro in numerosi tipi di intreccio, scuotendoli come per scalzare la loro intollerabile impenetrabilità, schiaffeggiando le pareti, i muri vegetali, come per infliggere il meritato castigo per una crescita troppo compatta a protezione del percorso, graffiandosi le dita, lacerando il palmo delle mani, trattenendo le punte dei rami brandelli di pelle degli avambracci, provocando autentiche e profonde ferite fin sulle braccia, fin sotto le ascelle, incise dalle punte dei rami già spezzati, a forma di corte lame affumicate, così da sanguinare abbondantemente dopo aver provato una sensazione di strappo, di lacerazione indolore, dopo averne sentito il suono, dopo un lieve urto, una puntura prolungata, seguiti da urla, provocando corse e movimenti in apparenza insensati, come contorcimenti e mezze giravolte, con le labbra attaccate alla ferita, nel tentativo di impedire l’infezione succhiando, lambendo, mentre le pareti vegetali si richiudono senza lasciare tracce visibili delle violenze

 

 

Nel labirinto disegnato dagli antichi tutti entrano per fingere di perdersi, all’ombra dei bossi cresciuti per secoli, nel buio degli angoli senza uscita, strisciando a ridosso dei muri vegetali, seguendo le false curve di un falso percorso, tutti sono perduti nel momento stesso di entrare affrontando il labirinto, costruito seguendo fedelmente un disegno millenario, muniti di strumenti in ogni caso inservibili, sia costringendo al rovesciamento istantaneo delle idee tradizionali d’orientamento sia, nel caso si fossero approntati strumenti capaci di funzionare in ogni frangente all’incontrario, costringendo alla resa questi ultimi strumenti particolarmente delicati, di cui si sono sempre viste le lancette impazzire, contorcersi, bucare il vetro, sbriciolarlo, assumendo, infine, il moto uniforme e incomprensibile delle lancette dell’orologio, solo un poco più accelerato.

 

 

mentre tutti coloro che entrano devono saper rovesciare istantaneamente l’impulso di avvicinamento, arretrare anziché avanzare, rinunciando ad un passo in avanti apparentemente risolutore per scegliere in ogni occasione l’indispensabile dietro-front e i cento passi all’indietro, dovendosi convincere subito che il punto d’arrivo, una scala a chiocciola che sale fino a una piattaforma dove è stata alzata una statua, è soltanto illusorio e che il centro del labirinto, sempre il suo punto di arrivo, non deve essere considerato come centro ma situato in un punto qualunque, determinato a caso, dunque seguendo scrupolosamente il principio di casualità, scegliendo, che si possa veramente parlare di scelta è dubbio, la soluzione che non solo deve apparire abnorme rispetto ai comuni criteri di orientamento, ma addirittura gratuita, senza che sia necessariamente l’opposto, ma in ogni caso altro, da che non si sa con precisione assoluta, assumendo come principio generale che si può sperare di avvicinarlo lasciandolo costantemente alle spalle, che assumendo il dietro-front come prima soluzione generalmente esatta si può credere di non perdere contatto, più i giri si allargano, più i passi sembrano sprecati, i ritorni inutili,

 

 

dopo una serie di tentativi contrari, una volta capito che la prima regola è quella di procedere girando in modo di spostarsi verso l’esterno, evitando sempre di svoltare verso l’interno, cioè rifiutando la direzione normale della meta, cioè che per avvicinarsi occorre allontanarsi, poiché questo è il canone fondamentale imposto da chi ha immaginato e disegnato il labirinto, in modo che al suo interno divengono possibili tutti i giuochi, i movimenti più liberi, permettendo sempre, una volta che un determinato percorso è divenuto troppo noto, e i giuochi possibili conclusi in un numero fisso, di ritornare all’imprevedibilità con opportuni spostamenti e modifiche, con la costruzione di barriere e 1’abbattimento di altre, riducendo quelle che erano le svolte risolutive ad angoli senza uscita, aprendo altri falsi corridoi, senza contare l’aumento progressivo delle difficoltà determinato dalla crescita delle siepi di bosso che, infittendosi e elevandosi, sottraendo sempre più luce, accresce il finto timore di chi dispera di arrivare alla soluzione, sedendosi per terra, esausto, aspettando il soccorso di qualcuno più fortunato o geniale, costretto, nei casi estremi, a chiamare il custode, risolvendosi a una soluzione che tutti cercano di evitare come il massimo del punteggio negativo nella sconfitta.

 

 

Dopo essersi accertati della falsità anche della regola degli opposti, la soluzione rimane legata a una serie di coincidenze che nessuno, o quasi, riesce a ripetere, ricostruendo, cioè, l’intera serie secondo un ordine contrario alla ragione, così che non si può veramente decidere nel momento in cui ci si rende conto della propria posizione, così che ogni movimento, anche quello decisivo, il finale, deve essere compiuto per caso, con il dubbio aiuto del calcolo delle probabilità, secondo impulsi e spinte istintive che il più delle volte ingannano conducendo direttamente a cozzare contro le barriere più infittite, così che nell’istante che segue il passo risolutore, quando, dopo l’ultimo dietro-front alla cieca, ci si trova di fronte, senza averlo nemmeno presentito, alla spirale di marmo della scala a chiocciola, ansimanti si trova la forza di percorrerla correndo, saltando quanti gradini si può, raggiungendo con foga forsennata il piedistallo della statua, dove ci si installa, sedendosi con violenza, battendoci sopra il sedere con uno scatto

 

 

 

[da: Antonio Porta, Partita, Feltrinelli, Milano 1967. Ringraziamo Rosemary Liedl per la disponibilità e la gentile concessione]