da CIO' CHE VEDIAMO, CIO' CHE CI GUARDA / Georges Didi-Huberman. 1992

[L’uscita di “Storia dell’arte e anacronismo delle immagini” (Bollati Boringhieri, 2007), di cui consiglio la lettura, mi ha invogliato a riprendere per GAMMM un testo – per me fertile di riflessioni – scritto da Georges Didi-Huberman nel 1992, e apparso in Italia solo parzialmente su rivista. Ripropongo qui uno stalcio della sintesi teorica dell’autore sull’estetica del minimalismo. Alessandro Broggi.]

[…] Un’aridità senza appello, senza contenuto. Volumi – per esempio parallelepipedi – e nient’altro. Volumi che non indicano decisamente nient’altro che se stessi. Rinunciando decisamente a qualsiasi finzione di un tempo che li modifichi, che li apra o li riempia, o qualsiasi altro.
Volumi senza sintomi e senza latenze, dunque: oggetti tautologici. […] Si trattava in primo luogo di eliminare qualsiasi illusione per imporre degli oggetti cosiddetti specifici, degli oggetti che non chiedono altro che di essere visti per quello che sono. Il proposito, semplice in linea di principio, si rivelerà eccessivamente delicato nella realtà della sua messa in pratica. Perché l’illusione si accontenta di poco, tanto è avida: la minima rappresentazione fornirà subito qualcosa in pasto – fosse pure discreto, un semplice dettaglio – all’uomo di fede.
Come fabbricare un oggetto visivo spogliato da qualsiasi illusionismo spaziale? Come fabbricare un artefatto che non menta sul proprio volume? Questa fu innanzitutto la domanda posta da Morris e da Judd. Il primo partiva da un’insoddisfazione di fronte al modo in cui un discorso di tipo iconografico o iconologico – ovvero un discorso derivato in ultima analisi dalle tradizioni pittoriche più accademiche – investe regolarmente l’arte della scultura, e la investe per tradire regolarmente i suoi parametri ideali, i suoi parametri specifici. Il secondo cercò di pensare l’essenza stessa – in generale, e dunque radicale – di ciò che bisognava intendere come illusione. Allora, ne derivò il rifiuto di rifarsi non solo ai modi tradizionali del “contenuto” – contenuto figurativo o iconografico, per esempio –, ma anche ai modi di otticalità che la grande pittura astratta degli anni ’50, quella di Rothko, di Pollock o di Newman, aveva messo in opera. Per Judd basta che due colori fossero messi n presenza perché uno “avanzi” e l’altro “retroceda”, facendo tutto il gioco dell’insopportabile illusionismo spaziale: “Tutto ciò che si trova su una superficie ha uno spazio dietro di sé. Due colori sulla stessa superficie si trovano quasi sempre a profondità diverse (lie on different depths). Un colore regolare, soprattutto se è ottenuto con della pittura a olio che copra la totalità o la maggior parte di un dipinto, è insieme bidimensionale e infinitamente spaziale (both flat and infinitely spatial). Lo spazio è più profondo in tutte le opere in cui l’accento è messo sul piano rettangolare. […] Salvo che nel caso di un campo completamente e uniformemente coperto di colore o di segni qualsiasi cosa posta in un rettangolo e su un piano suggerisce qualcosa che è dietro e sopra qualcos’altro (something in and on something else), qualcosa nel suo ambiente – il che suggerisce una figura o un oggetto nel suo spazio, in cui questa figura o questo oggetto sono esempi di un mondo simile [illusionistico]: è lo scopo essenziale della pittura. Neppure le recenti pitture sono completamente semplici (single)”.
Si sente, a leggere questo testo di Judd, la strana impressione di un deja-vu che si sarebbe rivoltato contro se stesso: una familiarità che lavora alla propria negazione. È, in effetti, l’argomento modernista per eccellenza, quello della specificità – allegata in pittura alla rinuncia all’illusione della terza dimensione –, che torna qui per mettere a morte quella stesa pittura, in quanto pratica votata checché ne pensi a un illusionismo che ha definito tanto la sua essenza quanto la sua storia passata. Judd radicalizzava duqneu l’esigenza di specificità – o “letteralità dello spazio”, come scrive (litteral space) – al punto di vedere nei quadri di Rothko un illusionismo “quasi tradizionale”. Si capisce allora che alla questione di sapere come si fabbrica un oggetto visivo spogliato di qualsiasi illusionismo spaziale Judd rispondeva: bisogna fabbricare un oggetto spaziale, un oggetto a tre dimensioni, produttore della propria spazialità “specifica”. Un oggetto capace così di andare oltre sia l’iconografismo della scultura tradizionale sia l’illusionismo inveterato della pittura modernista stessa. Bisognerebbe, secondo Judd, fabbricare un oggetto che si presenti (e rappresenti) solo per la sua volumetria di oggetto – un parallelepipedo, per esempio –, un oggetto che non inventi né tempo, né spazio al di là di sé.
È sorprendente constatare, nell’argomento dei due colori messi in presenza in un quadro, che l’ostacolo a questa ideale specificità, o ciò che potremmo chiamare il crimine elementare di lesa specificità, risiede nella semplice messa in rapporto di parti anche astratte. Perché ogni messa in rapporto, per quanto semplice, sarà già doppia e duplice, costituendo per ciò stesso un attentato a questa semplicità dell’opera (singleness, parola che significa anche probità) che Judd auspica. Tocchiamo qui la seconda esigenza fondamentale rivendicata, pare, dagli artisti minimalisti: eliminare ogni dettaglio per imporre degli oggetti compresi come totalità indivisibili, non scomponibili. Dei “tutto senza parti”, degli oggetti qualificati in questo senso di “non relazionali”. Morris insisteva sul fatto che un’opera dovrebbe darsi come una Gestalt, una forma autonoma, specifica, immediatamente percepibile; riformulava così il suo elogio dei “volumi semplici che creano potenti sensazioni di Gestalt”: “Le loro parti sono così unificate che offrono un massimo di resistenza a qualsiasi percezione separata”.
Quanto a Judd, reiterando fortemente la sua critica di qualsiasi pittura anche modernista – “un quadro di Newman non è in fondo più semplice di un quadro di Cézanne –, si appellava a una “cosa presa come tutto”, dotata di una “qualità [essa stessa] presa come tutto, affermando infine che “le cose essenziali sono isolate (alone) e sono più intense, più chiare e più forti” di tutte le altre. Un’opera forte, per Judd, non doveva dunque comporre “né zone o parti neutre o moderate, né connessioni o zone di transizioni”; un’opera forte non deve essere composta; mettere qualcosa in un angolo del quadro o della scultura e “equilibrarlo” con qualcos’altro in un altro angolo, ecco che cosa significa per Judd l’incapacità stessa di produrre un oggetto specifico; “il grande problema”, diceva, “è quello di preservare il senso del tutto”.
Il risultato di tale eliminazione del dettaglio – cioè di ogni “parte” composita o relazionale – sarà dunque quello di proporre oggetti dalle forme eccessivamente semplici, generalmente simmetrici, oggetti ridotti alla forma minimale di una Gestalt istantaneamente e perfettamente riconoscibile. Oggetti ridotti alla sola formalità della loro forma, alla sola visibilità della loro configurazione visibile, offerta senza mistero, tra linea e piano, superficie e volume. Siamo nella regione assolutamente nuova e radicale di un’estetica della tautologia? Sembrerebbe di sì, ad ascoltare la celebre risposta data da Stella – pittore ritenuto produttore degli unici quadri “specifici” di quegli anni, cioè la famosa serie a strisce dipinta tra il 1958 e il 1965 – a una domanda postagli dal critico Bruce Glaser: “Glaser: Vuole suggerire che non esistono più soluzioni da trovare, o problemi da risolvere in pittura? […] Stella: La mia pittura è basata sul fatto che vi si trova solo ciò che può esservi visto. È realmente un oggetto. Qualsiasi pittura è un oggetto e chiunque vi è abbastanza coinvolto finisce con l’essere confrontato alla natura di oggetto di ciò che fa, qualunque cosa faccia. Fa una cosa. Tutto questo dovrebbe andare da sé. Se la pittura fosse abbastanza incisiva, abbastanza precisa, esatta, vi basterebbe semplicemente guardarla. L’unica cosa che mi auguro si tragga dai miei quadri, e che io stesso ne traggo per quel che mi riguarda, è che si possa vedere il tutto senza confusione. Quello che c’è da vedere è quello che vedete (what you see is what you see)”.
Vittoria della tautologia, dunque. L’artista ci parla qui di “ciò che va da sé”. Cosa fa quando fa un quadro? “Fa una cosa”. Cosa fate quando guardate un suo quadro? “Vi basta vederlo”. E che cosa vedete esattamente? Vedete quello che vedete, risponde in ultima istanza. Questa sarebbe singleness dell’opera, la sua semplicità, la sua probità in materia. Il suo modo, in fondo, di darsi come irrefutabile. Di fronte al volume di Judd, non avrete dunque nient’altro da vedere che la sua stessa volumetria, la sua natura di parallelepipedo che non rappresenta niente se non se stesso attraverso la possibilità immediata, e irrefutabile, di cogliere la sua natura di parallelepipedo. La sua stessa simmetria – ovvero questa possibilità virtuale di costruire ogni parte su un’altra corrispondente – è un modo tautologico. Sempre di fronte a questa opera vedete quello che vedete, sempre di fronte ad essa vedrete quello che avete visto: la stessa cosa. Né più né meno. Questo si chiama oggetto specifico. Questo potrebbe chiamarsi un oggetto visivo tautologico. O il sogno visivo della cosa stessa.
Qui si profila una terza posta in gioco, intimamente legata alle prime due, e che si svela come un tentativo di eliminare qualsiasi temporalità in questi oggetti, in modo da imporli come oggetti da vedere sempre immediatamente, sempre esattamente come sono… Ed essi “sono” così esattamente, questi oggetti, perché “sono” per essere stabili, oltre che precisi. La loro stabilità del resto – e c’è qui un problema non occasionale, bensì centrale di ogni costruzione –, li protegge contro i cambiamenti del senso, come si direbbe dei cambiamenti di umore, le sfumature e le iridescenza produttrici di aura, le inquietanti stranezze di tutto ciò che è suscettibile di metamorfosarsi o semplicemente di indicare un tempo all’opera. Sono stabili questi oggetti, perché si danno come insensibili ai segni del tempo, spesso fabbricati, del resto, in materiali industriali: cioè in materiali del tempo presente, ma anche in materiali precisamente fatti per resistere al tempo. Non è dunque un caso se le opere di Judd utilizzano ogni tipo di metalli – rame, alluminio, acciaio inossidabile o ferro . anodizzato o galvanizzato; se le opere di Morris utilizzano la rete metallica, la resina poliestere; o se le opere di Carl Andre utilizzano il piombo o il mattone refrattario.
Ma questi oggetti rivendicano la stabilità ancora a un altro livello. È che l’unico indice della loro produzione – voglio dire la temporalità della loro produzione, l’organicità della loro realizzazione – sembra ridursi a un processo esattamente ripetitivo o seriale. Judd, Morrs, Andre, Flavin o LeWitt – tutti questi artisti grosso modo qualificati come minimalisti hanno apparentemente limitato o compendiato l’esposizione di un tempo all’opera nelle loro opere, facendo giocare lo stesso con l medesimo, riducendo la variazione – la sua esuberanza potenziale, la sua capacità di spezzare le regole del gioco che si dà – all’ambito di una semplice variabile logica, ovvero tautologica, quella in cui lo stesso torna invariabilmente al medesimo.
È senza dubbio prendendo alla lettera questa stabilità – la pura ripetizione dei volumi di Judd come una sorta di elogio tautologico del volume attraverso se stesso . che un atrista come Joseph Kusuth avrà pensato di dover richiudere nel linguaggio il cerchio autoreferenziale del volume “minimale”: cinque scatole cubiche, vuote, trasparenti, fatte di vetro, raddoppieranno la loro medesimità di oggetti con una “descrizione o “definizione” scritta sull’oggetto stesso: BoxCubeEmptyClearGlass. Allora l’opera non si accontenta più di mostrarvi che ciò che vedete non è nient’altro che quello che vedete, ovvero dei cubi vuoti di vetro trasparente, in più lo dice, in una sorta di richiusura tautologica del linguaggio sull’oggetto riconosciuto.
Il risultato di tutto questo – è l’abbozzo di una quarta posta in gioco – sarebbe dunque quello di promuovere questi oggetti specifici ad oggetti teoricamente senza gioco di significazioni, dunque senza equivoci. Oggetti della certezza visiva così come concettuale e semiotica (“Questo è un parallelepipedo di acciaio inossidabile…” exit la “similitudine disidentificante” di cui Michel Foucault parlava in Questo non è una pipa). Di fronte ad essi non ci sarà niente da credere o da immaginare, poiché essi non mentono, non nascondono niente, neppure il fatto che possono essere vuoti. Perché, in un modo o nell’altro – concreto o teorico –, sono trasparenti. La visione di questi oggetti, la lettura dei manifesti teorici che li hanno accompagnati, tutto sembra perorare la causa di un’arte vuota di qualsiasi connotazione, forse anche “vuota di qualsiasi emozione” (an art without felling). In ogni caso di un’arte che si sviluppa fortemente come un antiespressionismo, un antipsicologismo, una critica dell’interiorità alla maniera di un Wittgenstein – se si ricorda come riduceva all’assurdo l’esistenza del linguaggio privato, opponeva la sua filosofia del concetto a qualsiasi filosofia della coscienza, o riduceva in briciole le illusioni della conoscenza di sé.
Nessuna interiorità, dunque. Niente latenza. Più niente di questo “ritiro” o di questa “riserva” di cui ha parlato Heidegger interrogando il senso dell’opera d’arte. Niente tempo, dunque niente essere – soltanto un oggetto uno “specifico” oggetto. Niente ritiro, dunque niente mistero. Niente aura. Niente “qui si esprime”, poiché niente esce da niente, poiché non esiste luogo o latenza – un ipotetico giacimento del senso – dove qualcosa potrebbe nascondersi per uscirne, per risorgerne in qualche momento. Bisogna ancora leggere Judd per poter formulare definitivamente ciò che darebbe la quarta posta in gioco di questa problematica: eliminare qualsiasi antropomorfismo per ritrovare e imporre questa ossessiva, questa imperativa specificità dell’oggetto, di cui gli artisti della Minimal Art hanno fatto, con ogni evidenza, il loro manifesto. Eliminare ogni forma di antropomorfismo significa ridare alle forme – ai volumi come tali – la loro potenza intrinseca. Significa inventare forme che sappiano rinunciare alle immagini e, in maniera perfettamente chiara, che facciano da ostacolo a qualsiasi processo di fede di fronte all’oggetto.
Così si potrà dire che il puro e semplice volume di Judd – il suo parallelepipedo di acciaio laminato – non rappresenta niente di fronte a noi come immagine [non rigioca nessuna presenza supposta altrove – ciò a cui ogni opera d’arte figurativa o simbolica si prova]. È qui, davanti a noi, semplicemente, semplice volume integro e integralmente dato (single, specific): semplice volume da vedere e da vedere molto chiaramente. La sua aridità formale lo libera, pare, da qualsiasi processo “illusionistico” o antropomorfo in generale. Noi lo vediamo così “specificamente” e così chiaramente nella misura in cui esso non ci (ri)guarda.

[Da “Ciò che vediamo, ciò che ci guarda”, traduzione di Elio Grazioli, apparsa su “Ipso Facto” n. 4, maggio-agosto 1999, di alcuni capitoli di: Georges Didi-Huberman, “Ce que nous voyons, ce que qui nous regarde”, Minuit, Parigi, 1992. Immagine: Donald Judd, “Untitled”, 1968, enamel on aluminum, 22 x 37 1/2 x 50 inches, Solomon R. Guggenheim Museum, Panza Collection.]